Venezia 73 - Gukoroku, la recensione

Cupo ritratto di un Giappone classista e ipocrita, il thriller Gukoroku approda al Festival di Venezia nella sezione Orizzonti, in corsa anche per il Premio Opera Prima Luigi De Laurentiis

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Le pieghe più torbide dell'animo umano trovano degna e cruda rappresentazione nel primo lungometraggio firmato da Kei Ishikawa, Gukoroku (o Traces of Sin, nel titolo inglese), presentato al 73simo Festival del Cinema di Venezia nella sezione collaterale Orizzonti, nonché candidato al premio Luigi De Laurentiis per la Miglior Opera Prima. Un dramma cupo e inquietante, che trae linfa dal proprio sguardo desolato sulla società e sul vano tentativo di liberarsi del proprio retaggio.

Tratto dall'omonimo romanzo di Tokuro Nukui e ambientato in una Tokyo alienante e priva di connotazioni precise - scelta che aiuta lo spettatore a immergersi in questo gigantesco non-luogo - Gukoroku si avvia come un thriller per svincolarsi ben presto dai cliché del genere. L'indagine condotta dal reporter Tanaka (Satoshi Tsumabuki) sul massacro di un'apparentemente idilliaca famiglia, avvenuto un anno prima, porta l'uomo a contatto con le molte facce dell'abiezione umana, in un distruttivo viaggio di scoperta e autoscoperta.

I punti di forza dell'esordio al lungo di Ishikawa risiedono, senza ombra di dubbio, nel rigore registico e nella messinscena scarna ed essenziale, che riesce a controbilanciare al meglio alcuni eccessi della sceneggiatura, paradossalmente prevedibile proprio nei punti che, sulla carta, anelano a essere più scioccanti. Ciò che, con interpretazioni meno misurate e una regia più ammiccante, sarebbe facilmente sprofondato nel ridicolo, assume qui una dignità tragica che garantisce credibilità all'intera storia di Tanaka e della sua indagine.

La successione di ritratti umani proposti da Gukoroku denota una visione pessimista e desolata sull'uomo e sulla sua meschinità, oltre che una lucida analisi dell'ipocrisia sociale del mondo raccontato da Ishikawa. Non è certo un caso che ricorra più volte la menzione dell'estrazione familiare che, in prospettiva, è alla base delle aberrazioni di cui si sono macchiati i protagonisti del film. In un ambiente ostile e classista, che rifiuta i miserabili impedendo, di fatto, ogni possibilità di miglioramento, l'ambizione più autentica si sgretola di fronte alla marmorea consapevolezza di non poter cambiare. La scabrosa unione tra reietti diviene, pertanto, una conseguenza quasi necessaria, nonché l'unica fallace alternativa a una solitudine irrimediabile, e le leggi della morale comune risultano deviate da una necessità di comunione forse torbida, ma specchio dell'universale desiderio di essere compresi e accettati dai nostri simili.

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