Venezia 73 - Frantz, la recensione

Presentato al Festival di Venezia, Frantz di François Ozon riflette sul valore catartico della menzogna attraverso la delicata relazione tra due giovani accomunati da un lutto

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Esistono bugie a fin di bene? Questa infantile eppure sempiterna domanda è al centro della riflessione di François Ozon sulla Grande Guerra - e, con essa, su ogni conflitto che è seguito a quell’immane, irripetibile tragedia - nel suo Frantz, in corsa per il Leone d’Oro al 73simo Festival di Venezia. Un affresco denso, uno scrigno ricolmo sotto la rassicurante facciata del dramma in costume, che spicca il volo grazie a un uso illuminato di forme e formule attinte da generi filmici “altri”, a partire dalla colonna sonora - a tratti hitchcockiana - costruita attorno a un tema musicale che rimanda inevitabilmente all'Inno alla Gioia beethoveniano, in una versione minimale spogliata di qualsivoglia sentimento consolatorio.

Si potrebbe dire, per semplificare ciò che è impossibile riassumere in una recensione, che Frantz ambisca a essere un film sulla menzogna, elevata a unico strumento per lenire la devastazione di una realtà mortifera in Germania così come in Francia. Anna (plauso alla fresca e compostissima interpretazione di Paula Beer) e Adrien (un meraviglioso Pierre Niney), i due protagonisti del film, sono entrambi segnati dalla morte del giovane Frantz (tedesco di nascita, ma con un nome che significa letteralmente francese), fidanzato dell’una e ombra di dolore sul passato dell’altro. Innamorati di un fantasma, i due ragazzi finiscono per sublimare i propri diversi dolori in una bolla di mutua comprensione che sembra andare al di là dei confini di vero o falso per raggiungere l’impervia meta del perdono.

Come detto, Frantz è un film in costume: tuttavia, sarebbe riduttivo limitare la sua validità al contesto in cui la storia di Anna e Adrien ha luogo. L’affresco storico non è, infatti, mai didascalico, ma piuttosto scarnificato in funzione della psicologia dei protagonisti: in un processo che sembra inverso rispetto a quello mostrato in Il Nastro Bianco, in cui Haneke additava la bruttezza interiore dell’uomo come prodromo dell’imminente avvento nazista, Ozon sembra compiere un’analisi sul potere catartico del racconto romanzato, in un parallelismo tra l’autore-narratore e i propri protagonisti, come lui cantori di racconti fantastici.

Adrien mente, così come Anna, ma sulle loro cattedrali di menzogne si alza il vessillo di una verità: quella dell’amore. Un amore che, nel caso del ragazzo francese, passa per gli occhi di un nemico, sul cui cadavere ancora caldo egli ha maturato la consapevolezza empirica della sciagura del conflitto - e, molto probabilmente, di una sessualità che Ozon più volte suggerisce orientata all’omoerotismo (la scena immaginata della lezione di violino rappresenta forse l’apice erotico finora raggiunto in questo Festival). Anna, a sua volta, elabora il lutto per la morte di Frantz solo quando si scopre innamorata degli occhi fanciulleschi e tristi di Adrien; perdere per la seconda volta l’uomo amato, tuttavia, non la spinge a bramare nuovamente la morte, bensì a cercare la (propria) vita. Vita che, per essere vissuta appieno, dovrà passare ancora una volta per la tortuosa strada della menzogna.

In questo senso, Ozon sembra suggerirci che mentire sia un elemento indispensabile non solo della vita, ma anche e soprattutto per il conseguimento della felicità personale. Si tratta di un tabù scabroso, ancora socialmente inaccettabile a più di ottant’anni di distanza dalla composizione dell’opera all’origine di Frantz (la piece teatrale L’homme qui j’ai tué di Maurice Rostand, tra i primi ad affrontare tematiche apertamente omosessuali nelle proprie opere). Ecco, quindi, il coraggio di Ozon: mostrare l’elefante nella stanza, dichiarare senza falsi moralismi che mentire può far (star) bene, perché la maggior parte dell’umanità è gravata dal dramma dell’ottusità.

Anna e Adrien mentono ai propri cari - intuiamo che persino il matrimonio finale del giovane sarà una facciata atta a silenziare il sospetto della madre sull’omosessualità del giovane - per proteggerli, laddove essi hanno mentito ai propri figli destinandoli al massacro reciproco: se da una menzogna ottusa può derivare solo la morte, da una bugia a fin di bene può persino scaturire la voglia di vivere, come suggerisce la cinica, eppur confortante scena finale del film, che assolve - al di là dell’ego te absolvo cristiano, già arrivato parecchi minuti prima - la bugiarda Anna e, con lei, un’umanità continuamente alla ricerca di nuove favole per sopravvivere.

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