Venezia 73 - El Cristo Ciego, la recensione
Davvero è ancora possibile continuare a rappresentare le persone per quello che non sono? El Cristo Ciego pensa di sì ma non convince per nulla
Diversi anni dopo la stessa persona gira il Cile più povero, predica la tolleranza e cerca di tirare fuori il meglio dalle persone, racconta storie per spiegarsi, battezza e raccoglie consensi e insulti in pari numero. Il film di Christopher Murray da un inizio così folgorante (con un protagonista così vuoto che sembra davvero il genere di dimesso interprete della volontà divina che le scritture tramandano) lentamente lungo tutta la sua durata si spegne, verso un finale mesto, non prima di essere passato attraverso un'umanità ai margini da tutto, priva di speranza ma bisognosa di ogni cosa, senza che davvero questa parabola di vera o presunta cristologia riesca a mostrare qualcosa all'altezza del contrasto che mette in scena tra carne e spirito. Addirittura, in un momento che quasi ricorda il fenomenale finale di Ordet, El Cristo Ciego tenterà anche un miracolo. Altra occasione sprecata tanto per il protagonista quanto per il film.
Non si chiede ovviamente al cinema di mettere in scena solo gli stereotipi, di farci vedere e rivedere ad oltranza sempre la medesima rappresentazione, i medesimi tipi e i medesimi caratteri con i medesimi volti. Si chiede semmai di non appaltare alla messa in scena quella delicatezza nel rappresentare l'umanità ai margini di tutto che dovrebbe stare al regista. Se è vero (e questo il film lo sa e lo tiene bene a mente) che proprio gli uomini e le donne che sono al centro dei piccoli viaggi di El Cristo Ciego sono i soggetti più sensibili, le persone più dimenticate e non "guardate", è mai possibile continuare a comporre delle elegie tanto fasulle quanto stucchevoli sui loro corpi e i loro volti?