Da anni si fa gran parlare, nel nostro paese, del supposto ritorno della commedia all'italiana, annunciato tante volte da sortire, ormai, l'effetto di un reiterato
al lupo al lupo. Se sporadici esempi hanno illuminato la recente cinematografia nostrana, essi non sono tuttavia ancora bastanti ad autorizzare la speranza di una nuova ventata di quell'inebriante profumo che miscelava commedia e tragedia, adoperando pirandellianamente l'ironia come fondamento del pathos e del coinvolgimento dello spettatore. Ebbene, giunge oggi dall'Argentina (in co-produzione con la Spagna)
El Ciudadano Ilustre, mirabile esempio - chiaramente immerso in un contesto cinematografico ben diverso da quello italiano - di quella medesima fusione di dramma e comicità che, in tutto il mondo, ha sempre originato capolavori.
Presentato alla 73sima Mostra del Cinema di Venezia e attualmente in corsa per il Leone d'Oro (oltre che per una Coppa Volpi che non sembra prematuro auspicare venga data al suo protagonista, l'eccellente Oscar Martinez), El Ciudadano Ilustre porta la firma di Gastón Duprat e Mariano Cohn, registi in coppia dal 1999, il cui affiatamento trova perfetta esemplificazione in quella che è, a oggi, la prima vera sorpresa del concorso ufficiale in questo festival.
Come in altri film presentati dalla selezione ufficiale della Mostra quest'anno (basti pensare a
Nocturnal Animals e
Les Beaux Jours d'Aranjuez), il film di Duprat e Cohn riflette sul valore della scrittura, prendendo a pretesto il ritorno in patria, dopo quarant'anni di esilio europeo autoimposto, dello scrittore premio Nobel
Daniel Mantovani. Catapultato nella piccola realtà di Salas, cittadina di cui non ha mai cessato di scrivere nei propri romanzi, l'uomo si trova di fronte non solo a luci e ombre dell'ottusa mentalità di paese dalla quale era fuggito anni addietro, ma anche alle scelte compiute nel proprio passato, le cui ripercussioni si riflettono su di lui in forme via via sempre più minacciose.
La comicità di El Ciudadano Ilustre è travolgente, legata a un realismo intriso di grottesco che ritrae impietosamente le squallide meschinità della piccola comunità di Salas tanto quanto la boria intellettuale di Daniel, arroccato nella fortezza inespugnabile della propria superiorità intellettuale. La cattiveria è imparziale, la critica senza esclusione di colpi. In controtendenza rispetto alla grande tradizione dei ritorni alle origini, Duprat e Cohn ne sovvertono ogni regola, proponendo non la storia di una riconciliazione, ma di una battaglia troppo a lungo rimandata. La letteratura di Daniel è stata per anni popolata di fantasmi rievocati senza essere realmente vissuti, cementificati da un odio mai vissuto appieno e da un disprezzo mai apertamente dichiarato.
È vero, come detto dal superbo protagonista, che lo scrittore è colui che non si accontenta della realtà in cui vive, inserendovi elementi fantastici derivati dalla sua "correzione" mentale; ma per arricchire la realtà, occorre prima affrontarla. In questo senso, il
nostos bizzarro di Daniel ha il sapore di una pacificazione con se stesso, messa atto nel momento stesso in cui l'autore decide di partire per Salas. Il suo viaggio allucinante è, nella sua insidiosa pericolosità, la sferzata di vita e morte di cui la sua desertificata vena creativa necessita. La tentazione nostalgica, tanto cara al cinema più sentimentale, si annienta nello scontro brutale dell'uomo con quella realtà claustrofobica da sempre rifuggita, gli spettri evocati nelle sue opere più astiose prendono infine la consistenza di esseri umani; nel romanzo di Mantovani così come nel film, per il momento, più sorprendente del concorso veneziano.