Venezia 72 - Sangue del mio Sangue, la recensione
Lontano dalla logica delle trame e giocato su passato e presente, Sangue del mio sangue è un film che abbandona le parole per abbracciare le immagini
Rigidamente diviso in due parti (il passato e il presente, tutto intorno ad una prigione-convento di Bobbio, ieri attiva oggi rudere) il film mette molto poco in relazione la storia di una donna processata per possessione demoniaca, di un uomo, Federico Mai, che cerca di riabilitare il nome del proprio fratello (da lei traviato) e poi nel presente di un Conte che abita la prigione-convento in gran segreto e dell'erede di quel Federico Mai che vuole acquistarlo con l'inganno.
Innamorato degli amanti nascosti, delle pieghe che la religione riesce a far prendere agli eventi, delle costrizioni che implica nella vita delle persone e animato da un sincerissimo mai autocompiaciuto luddismo, Sangue del mio sangue identifica di nuovo nella parentela qualcosa di negativo, o almeno il viatico per qualcosa di negativo, il terreno fertile per le maledizioni e per il fiorire dei difetti. Così anche se non tutto in questo film sembra essere al meglio, è anche indubbio che la sensazione di cappa negativa su una piccola comunità e l'associazione di questa con una radice religiosa e un perpetuarsi familiare trova una sincronia armonica, perchè ogni cosa in questo film passa per le immagini (come sempre nel Bellocchio recente e specialmente da quando l'occhio che usa per le use immagini è quello superlativo di Daniele Ciprì, inevitabilmente un coautore), cioè per la conoscenza che viene dall'intuizione della visione e non dalla riflessione della testa.