Venezia 72 - Recensione: Man Down

Dito Montiel porta a Venezia Man Down, dramma che mescola tanti generi, forse troppi, per raccontare il trauma della guerra

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Che Dito Montiel sia un cineasta piuttosto libero nella gestione della materia cinematografica, è fatto noto o quantomeno intuibile già dall'altrettanto libera gestione della sua vita (ex modello, artista, pugile, musicista e chi più ne ha più ne metta, come raccontato nell'autobiografico Guida per riconoscere i tuoi santi). Non stupisce quindi più di tanto il fatto che il suo Man Down, presentato al Festival di Venezia nella sezione Orizzonti, sia un complicato - prima ancora che complesso - mosaico di analessi e prolessi, che inanellano secondo uno schema inizialmente quasi incomprensibile episodi della vita di Gabriel Drummer (Shia LaBeouf), giovane marine impegnato prima sul fronte afghano e poi catapultato in un'America post apocalittica, alla disperata ricerca della moglie Nat (Kate Mara) e del figlioletto Jonathan, aiutato nella sua disperata missione di salvataggio dal fidato amico Devin (Jai Courtney).

Il film si articola su quattro linee narrative distinte che si intrecciano: la prima è un dialogo tra Gabriel e il Capitano Peyton (Gary Oldman), incaricato di valutare la sanità mentale del giovane militare in seguito a un drammatico incidente avvenuto sul campo di battaglia. L'incidente costituisce la seconda linea narrativa, mentre le alte due riguardano la placida vita domestica pre-guerra di Gabe, allietato dalla presenza della moglie e del proprio bambino. La quarta e più misteriosa linea narrativa dipinge un mondo ormai distrutto, in cui i superstiti si contano sulla punta delle dita. In questo desolato contesto (ben dipinto dalla granulosa, fosca fotografia di Shelly Johnson) si muovono Gabe e Devin, alla ricerca di Nat e Jonathan, e solo nell'ultima mezz'ora Montiel svela il nesso tra questa parte di storia e il resto del film, con un colpo di scena seminato con intelligenza nelle parti del racconto.

L'esperimento di Montiel non riesce del tutto, sovrapponendo forse troppi piani per soli novantadue minuti di film, e finisce per perdere in profondità quello che guadagna in estensione. Tuttavia è innegabile l'efficacia complessiva della spirale psicotica del giovane Gabriel, supportata al meglio dalla vibrante performance di uno Shia LaBoeuf perfettamente in parte in ogni diverso momento della vita del tormentato protagonista. C'è molto potenziale non del tutto espresso nel film di Montiel, e colpisce l'intelligente gestione del parallelismo guerra reale - guerra domestica, che è lo scheletro invisibile del film ma ne giustifica, sul finale, anche i passaggi più ellittici e apparentemente criptici. Una scommessa azzardata, una successione fin troppo rapida di eventi che risultano, a una prima occhiata, sconnessi, e recuperano solo al termine del film una coerenza, nella creazione di un mosaico le cui tessere sono perfettamente incastrate, ma il cui effetto complessivo avrebbe beneficiato di qualche minuto in più per cogliere completamente nel segno.

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