Venezia 72 - Rabin, The last day, la recensione

Cinema buono per chi dei film ama i contenuti e si disinteressa della forma, Rabin, The last day non ha senso d'esistere su uno schermo è pura opinione

Critico e giornalista cinematografico


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L'omicidio Rabin è per la società israeliana quel che l'omicidio Kennedy è per quella americana, un trauma filmato. Ripercorrendo l'idea di un film inchiesta come il JFK di Stone, Amos Gitai implicitamente afferma questo. Il suo Rabin, The Last Day non inscena la finzione come faceva Stone ma, appartenendo anche ad un'altra era del cinema, esamina l'accaduto brevemente a partire dal video di repertorio e poi più lungamente lo alterna con delle ricostruzioni della commissione d'inchiesta e della prigionia dell'assassino (subito arrestato) fatte con attori. Tuttavia è proprio nell'impianto visivo che il film fallisce, svelando quelli che inevitabilmente erano gli intenti ideologici.

Gitai ha una sua idea su tutta la questione, come probabilmente qualsiasi israeliano dotato di senso civico, ha un preciso pensiero su cosa questa morte abbia sancito (il trionfo della politica dell'odio e dell'accrescere della violenza), da cosa sia stata causata e chi sia da imputare, per propagandarla usa il suo film nel ventennale della morte di Rabin. Non è una novità ma la mancanza di un senso ulteriore, più alto e più specifico al mezzo usato, che stimoli quest'opera invece lo è. Gitai si fa schermo delle immagini, del video di repertorio più volte mostrato e scandagliato come la ripresa di Zapruder dell'omicidio Kennedy, ma in realtà vuole mettere in scena le parole e la sua interpretazione degli eventi (non mostra proprio tutto della commissione di inchiesta ma solo quel che gli è utile).

Il cinema è un alibi per Rabin, The Last Day, un alibi per quello che poteva anche essere un articolo d'opinione e invece diventa un film senza senso visivo, un film che non usa le immagini per porsi delle domande ma per giustificare la propria esistenza.

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