Venezia 72 - Madame Courage, la recensione

Cattura con un realismo sporco e dolente il dramma adolescenziale di Allouache, in concorso a Venezia nella sezione Orizzonti

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Quattro ragazzi corrono nella notte, lungo una strada di un quartiere popolare. Potrebbe sembrare una rincorsa giocosa, una gara tra teenager, e invece è l'inseguimento - breve - a seguito di uno scippo. Così si apre Madame Courage di Merzak Allouache, presentato al Festival di Venezia e in corsa per la vittoria nella sezione Orizzonti.

In un'Algeria che potrebbe essere Italia, Spagna o Stati Uniti, il giovanissimo Omar vive allo sbando, tra una sorella costretta a prostituirsi, una madre che passa le sue giornate incollata ai predicatori televisivi - inquietante corrispondente islamico della Ellen Burstyn di Requiem for a Dream - e piccoli furti per potersi pagare una fetta di distrazione attraverso Madre Courage, droga sua unico conforto in uno squallore senza patria, sotto un sole impietoso che brucia e distrugge.

In questa esistenza costellata di scippi che scandiscono la giornata come preghiere di un monaco, Omar ha un incontro fulminante: strappando una khamsa (la caratteristica mano di Fatima) dal collo della coetanea Selma, i loro sguardi si incrociano brevemente, quanto basta a far accendere la scintilla di un desiderio casto ma intensissimo da parte del ragazzo, che lo spingerà a seguire la ragazza a rischio della propria incolumità.

Dopo Es-Stouh (in concorso a Venezia due anni fa), Allouache torna al Lido con un dramma che conferma le sue grandi doti di narratore, trasportando lo spettatore in un contesto magnetico di povertà e violenza, catturandone l'attenzione col semplice realismo della sua scarna messinscena. Coadiuvato dalla recitazione minimale e impeccabile del suo cast, il regista algerino si sofferma ancora una volta sul disagio della vita nel proprio paese, raccontandolo con sguardo onesto e personalissimo; c'è anche la minaccia dell'Islam radicale (tema caro al regista), suggerita attraverso l'incessante predica della televisione che, in Algeria come in tutto il mondo, avvelena la mente attraverso un costante, letale stillicidio sonoro.

Non basta certo un finale lasciato nell'incertezza ad alleggerire il peso di una storia di disagio vissuto con l'ovattata rassegnazione data dalla droga, dove l'adolescenza ha il volto già segnato dal dolore e porta incisa su di sé le cicatrici di una società colposamente indifferente nei confronti degli emarginati. Un piccolo grande racconto, che insegna e apre gli occhi senza la presunzione della predica.

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