Venezia 72 - L'attesa, la recensione

Pensato per seguire tutti gli stereotipi del cinema d'autore, L'attesa è un film non sincero che non vuole raccontare qualcosa ma apparire intellettuale

Critico e giornalista cinematografico


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C’è un lutto all’inizio del film, un funerale che subito annuncia nella maniera peggiore tutto quello che verrà. Queste esequie non sono normali, non si soffre come al solito, sono esequie talmente intollerabili per chi vi partecipa che la donna all’altare si urina addosso. Il corpo che non trattiene il dolore, che lo manifesta in maniera scomposta e incontrollata, il corpo che rivela ciò che la compostezza tenta di nascondere, è solo uno dei molti motti da teorie del cinema che vengono applicati a questo film apparentemente girato per rispondere a dei presupposti, per inquadrarsi da solo in una categoria. L’attesa infatti sarà tutto così, un film per nulla sincero che desidera essere “cinema d’autore” prima che raccontare una storia con partecipazione e un filo di originalità, che si muove e propone scene, sequenze o dialoghi più per la maniera in cui questi somigliano al preconcetto di cinema autoriale (in teoria non esiste una sua codifica, nella pratica è un genere) che per quanto possano parlare al pubblico.

L’attesa del titolo è quella di Jeanne ragazza del defunto Giuseppe che dalla Francia arriva nella casa estiva di lui nel Sud Italia per trascorrere le vacanze con il proprio fidanzato e alla quale la madre di Giuseppe (Juliette Binoche) non ha il coraggio di dare la notizia del decesso. Jeanne passerà così diversi giorni ad attendere l’arrivo di Giuseppe, che ovviamente non arriverà mai; li passerà tra discussioni, bagni al lago, incontri e una strana forma di avvicinamento alla madre del suo, ormai ex, ragazzo. Al centro di tutto però non c’è l’attesa del titolo, quanto il dolore della madre, elaborato in questa maniera strana ed egoista.

Il campionario di scene da cinema d’autore profuso per portare avanti la storia è impietoso. Ci sono materassini sgonfiati lentamente, abbracciandoli, solo per sentire l’aria che ne esce (aria che, si intuisce è stata soffiata dentro dal figlio defunto), ci sono i consueti rituali retropopolari (la processione della madonna) girati con stile semidocumentaristico che fungono da momento catartico sebbene laico, ci sta l’incontro fortuito con dei propri simili, l’occasione per una passione con uno sconosciuto, addirittura anche il grande classico del cinema d’autore recente, ovvero l’apparizione fantasmatica del morto! Non manca niente eppure nulla ha davvero il senso che dovrebbe avere o che almeno ha avuto altrove e in passato, in quei film che hanno fondato questo stile almeno 15 anni fa (uno di questi, il più ovvio e diretto, è La stanza del figlio) e in quelli che miracolosamente ancora riescono a trarre del senso da essa.

Sul tema più abusato (l’elaborazione del lutto) Pietro Messina gira il film meno sincero e più piegato sul già visto possibile, un film che sembra voler andare sul sicuro puntando su elementi di “certificata autorialità”, su una incontestabile protagonista di grande caratura internazionale (che invece andrebbe contestata visto l’impegno ridotto al minimo) e su un rapporto di indubbio panismo con il “territorio” e la natura circostante.
Impensabile accettarlo.

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