Venezia 72 - Interruption, la recensione

Insopportabilmente pretenzioso e autoreferenziale l'esordio al lungometraggio di Yorgos Zois con Interruption

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Una serata a teatro che vi farà passare la voglia di andare a teatro. Questa sarebbe potuta - e dovuta - essere la tagline di Interruption di Yorgos Zois, ennesimo tentativo di riportare sullo schermo l'annoso dilemma della vita versus arte. Tentativo andato a vuoto per colpa di un'arroganza intellettualoide che fa accartocciare il racconto su se stesso dopo i primi venti minuti, trascinando la vicenda per la successiva ora e mezza senza nemmeno l'alibi di un mordente annacquato.

Per inscenare il suo arrogante teatr(in)o, Zois scomoda nientemeno che l'Orestea, già portata sullo schermo con ben altri e alti risultati da Anghelopulos - maestro del giovane professorino Yorgos - in O thiassos. A colpi di luoghi comuni e di squallidi quanto ridicoli tentativi di modernizzazione senza capo né coda, un regista chiaro alter ego del buon Zois distrugge i capolavori di Eschilo, Sofocle e Euripide senza l'ombra di un rimorso, delitto aggravato dalla diretta discendenza - si perdoni la sintesi campanilistica - del cineasta da quegli stessi maestri presi a pretesto.

Le reali intenzioni di Zois restano ignote, non essendo il suo esperimento cine-teatrale né originale nella forma né tantomeno nella sostanza, specialmente se si ripensa a illustri tentativi quali, per esempio, Il bambino di Mâcon del grande Peter Greenaway, che con macabra efficacia era riuscito a raccontare la grottesca scomparsa della linea di demarcazione tra messinscena e violenza reale.

In conclusione: un fallimento completo, aggravato da una spocchia pseudo-autoriale che condanna senza possibilità di appello questo esordio non solo poco memorabile, ma addirittura da dimenticare.

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