Venezia 72 - Heart of a dog, la recensione

Tarato su standard per fortuna totalmente fuori moda, Heart of a dog è uno dei più imbarazzanti tentativi di fondere videoarte e cinema visti in un festival

Critico e giornalista cinematografico


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La videoarte è una forma audiovisiva separata dal cinema ma come tutte le altre è in contatto con esso. Cinema e videoarte dialogano e si influenzano a vicenda ma perchè la seconda possa farsi film è necessario che pieghi la testa e traduca le proprie idee nella lingua del cinema. Tutto ciò non accade in Heart of a dog, film pieno di sè, arrogante e dalle idee di una povertà disarmante.

Attraverso il proprio cane e un repertorio di immagini lo-fi che rispecchiano qualsiasi idea preconetta che un adolescente può avere di "spirito artistico", Laurie Anderson parla di 11 settembre, mutamenti dell'America, videosorveglianza, cita Wittgenstein e grandi pensatori. Heart of a dog attraverso un cane che prima diventa cieco e poi muore vuole affiancare sensazioni grazie all'uso delle immagini ma la povertà di queste e la banalità inaccettabile del montaggio che dovrebbe dargli un senso lasciano sconfortati.
Non è difficile, nello sfondo di questo esperimento (in altra maniera non lo si può chiamare) vedere un paradossale tentativo di elaborare la morte del proprio compagno Lou Reed. Non viene mai nominato Reed ma la perdita lenta del cane è occasione per parlare della morte più in generale, di ciò che rimane e dell'eredità artistica. Tutto completamente fuori fuoco e ad un livello di astrazione dilettantesco.

Addirittura ben presto si arriva anche alla summa massima dell'ingenuità: gli aforismi pronunciati mentre le parole stesse compaiono sullo schermo, in un raddoppio insensato che replica idee già passate di un'arte ormai non più moderna. Nemmeno nei video ingenui degli studenti di cinema più boriosi si vede un simile repertorio infinito di stereotipi dell'arte concettuale, associazioni e immagini in grado di non dire assolutamente niente ai maggiori di 18. Le luci e i pulviscoli che vediamo quando chiudiamo gli occhi, la natura, il cane suddetto che impara a suonare il pianoforte o realizza piccole sculture con la zampa (magari fosse un momento comico!), per non dire della perdita della vista come metafora, tutto risponde ad una certa idea di arte da Greenwich village ma non parla di nulla se non della miseria intellettuale e dell'esagerata autostima dell'autrice.

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