Venezia 72 - Beasts of no Nation, la recensione

La guerra di Beasts of no Nation non si ispira a quelle vere ma a quelle del cinema americano, da cui parte per trattare i bambini come adulti

Critico e giornalista cinematografico


Condividi

Per Cary Fukunaga lo sfondo è importante quanto il primo piano. Lo avevamo intuito con il suo Jane Eyre, lo abbiamo capito con la prima stagione di True Detective e ora è anche più vero in Beasts of no nation. La giungla, la guerra, i villaggi e anche i grandi palazzi dei leader sono luoghi incredibili, non solo set in cui muovere attori ma ambientazioni che li stimolano, li costringono ad agire, li mettono a disagio e gli parlano.

Già partendo da questi presupposti film di Fukunaga non è come gli altri, gioca ad un livello più alto e raffinato, parla di un bambino soldato non concependolo come un bimbo da guardare dall'alto verso il basso ma, da quando imbraccia il fucile, come un adulto e quindi tramutando in brevissimo il film in uno sulla guerra a tutto tondo.

Agu parte come lo stereotipo dell'allegro poverello che si ingegna. Beasts of no nation non lesina luoghi comuni e zucchero di scarsa raffinazione per mostrarci la sua vita pacifica prima che irrompa la guerra. Perduti tutti i punti di riferimento (cioè i familiari) l'unica scelta per sopravvivere è entrare nella milizia che lo raccatta, solo e sperduto, nella giungla. Da lì per fortuna il film cambia registro e spinge molto forte sulle sensazioni estreme in una rielaborazione, ottima, del cinema di guerra vietnamita americano.

Il percorso di Agu al servizio del Commandant, capo del battaglione in cui si imbatte, carismatico gigante pedofilo, duro ma stimato, severo e bastardo dal carisma indubitabile, è seguito con quella ricerca della passione estrema che Hollywood metteva in campo nel raccontare il delirio del Vietnam. Non un discorso razionale ma uno illogico e demente, folle e delirante. Sesso, droghe e massacri, Agu è allucinato, i suoi compagni sono porci arrapati e le stragi nei villaggi sono massacri insensati. Per Fukunaga la guerra è quel caos che ha conosciuto al cinema, un immaginario che rielabora in maniera personale per separare il pietismo dalla retorica, per fare un film che sia pura finzione, senza pretendere di essere realista ma che, mentendo, dica la verità.

Continua a leggere su BadTaste