Venezia 71 - The look of silence, la recensione [2]

Meno potente del precedente documentario di Oppenheimer, cui è molto legato, The look of silence affronta il medesimo argomento senza la medesima forza

Critico e giornalista cinematografico


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È contemporaneamente ingiusto e necessario guardare a The look of silence e pensare a The act of killing. Perchè il nuovo documentario di Joshua Oppenheimer sceglie di tornare sui luoghi e sugli argomenti del precedente (di fatto apparendo come un sequel) e nonostante un approccio, uno stile e una finalità diverse da quel clamoroso capolavoro che aveva realizzato sul rapporto tra rimorso e finzione, lo stesso è il film in primis a echeggiare il suo precedente. Neanche a dirlo da quest'impossibile confronto The look of silence ne esce distrutto ma l'impressione è che anche in assoluto sarebbe risultato come un documentario mediocre.

I primi richiami a The act of killing arrivano in alcune riprese di diversi anni fa in cui alcuni dei killer dell'esercito indonesiano al centro di quel film rimettono in scena e illustrano i loro omicidi, esattamente come facevano lì. A quelle persone si rivolge il protagonista di questa storia, fratello di una vittima che ora, decenni dopo, gira con la troupe per trovare e parlare con i responsabili (non solo impuniti ma anche privi di rimorso) e cercare di trovare un'assunzione di responsabilità.
É su questo il documentario, sul rimosso senso di responsabilità rispetto alle tragedie del passato collettivo, come gli uomini si relazionino con le aberrazioni che hanno compiuto e sul silenzio che si genera.

Sono infatti molti i silenzi del film, enfatizzati dal montaggio di campi e controcampi in cui intervistato e intervistatore stanno zitti poichè il primo non vuole più rispondere alle incalzanti richieste di assunzione di responsabilità che vengono dal secondo. Ma proprio come in The act of killing il dubbio che il montaggio non rappresentasse i fatti in ogni momento era fuori luogo, qui è una domanda continua. I silenzi di quei dialoghi (in teoria la parte centrale del documentario come si evince anche dal titolo) sembrano messi a bella posta, montati a dovere e non spontanei, almeno non sempre. E la forzatura stavolta stona con lo stile adottato, come i frammenti sul padre malato del protagonista.

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