Venezia 71 - The Look of Silence: il nostro incontro con Joshua Oppenheimer!

Abbiamo incontrato Joshua Oppenheimer, regista del già favorito per qualche premio The Look of Silence. Venezia 71 conferma il momento del documentario.

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Con The Act of Killing (2012) Joshua Oppenheimer ha attirato su di sé l'attenzione di tutto il mondo del documentario e non solo, sfiorando la vittoria agli Oscar del 2014. La sua esplorazione psicologica e sociale su come l'Indonesia abbia vissuto i massacri voluti dal regime militare dopo la salita al potere della dittatura nel 1965 continua con The Look of Silence, documentario presentato in Concorso a Venezia 71 ancora incentrato su come quella regione ha assimilato, o non assimilato, morte e ingiustizie per tutti questi anni. Stavolta la parola passa anche alle vittime e non più solo ai carnefici.

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Raccontaci la genesi di quello che ormai ci appare come il dittico: The Act of Killing (2012) e The Look of Silence (2014)?
The Look of Silence è il primo film che volevo fare in Indonesia. Lo volevo incentrare sui sopravvissuti ai massacri del 1965 e non sui massacri del 1965. Le conseguenze mi interessavano di più perché gli assassini erano ancora al potere e quindi volevo capire come era stato possibile per loro sopravvivere con questo peso. Il problema con The Act of Killing è che inizialmente io e i sopravvissuti che volevano aiutarmi a realizzarlo eravamo molto spaventati dalla possibilità che l'esercito e i capi dei villaggi potessero minacciare i miei collaboratori inducendoli a non partecipare al film. I sopravvissuti ed io eravamo così spaventati che furono proprio loro a dirmi che sarebbe stato meglio che io filmassi gli assassini e che io dessi la centralità del racconto ai carnefici. Così ho fatto. Quando ho mostrato quello che stavo facendo con Anwar Congo (l'ex gangster pluriomicida protagonista di The Act of Killing, N.d.R.), i sopravvissuti mi hanno detto: “Continua. Chiunque vedrà quello che stai facendo capirà ancora meglio cosa sta accadendo adesso in Indonesia e non cosa è accaduto nel 1965”. Colui che più mi spingeva a seguire questa linea era proprio Adi (il protagonista di The Look of Silence, N.d.R.), uno dei sopravvissuti al massacro. I vecchi filmati che lui vede nel film sono stati realizzati tra il 2003 e il 2005, quando intervistavo tutti gli assassini che potevo trovare a Nord di Sumatra. Anwar Congo fu il 41esimo assassino che riuscii ad intervistare alla fine del secondo anno di filmati nel 2005. Quando finii The Act of Killing, e mi riferisco soprattutto alla Director's Cut da 2 ore e 40 minuti, inserii delle inquadrature stranianti di paesaggi vuoti come fossero dei “tableau vivant” che rappresentavano i sopravvissuti. Quei morti assenti che secondo me infestavano ogni fotogramma di The Act of Killing. Era ovvio che dovessi fare un altro film sull'argomento ovvero su come deve essere stato per i sopravvissuti vivere in questo costante silenzio e nell'ombra della paura. Dopo aver finito di montare The Act of Killing all'inizio del 2012 sono tornato in Indonesia prima della premiere del film per girare di corsa The Look of Silence sapendo molto bene che non avremmo mai potuto fare ritorno in Indonesia dopo l'uscita di The Act of Killing. Questo è la storia. Il materiale è assemblato tra il 2003 e il 2005 e poi nel 2012.

E' possibile che quei massacri possano accadere ancora?
Penso che fino a che gli assassini saranno al potere, tutto può accadere. The Act of Killing è un ritratto del vuoto morale di una società che vive nella bugia. Gli assassini sono ancora al potere. Hanno ucciso migliaia di persone da Timor Est a Sumatra. C'è ancora un'impunità totale.

C'è un senso di colpa negli assassini?
L'unica trasformazione che vedi nel film è quando la figlia dell'assassino si scusa con Adi per quello che ha fatto suo padre. E' quello che Adi sta cercando da anni: delle scuse. Forse tutti i carnefici si sentono in colpa ma davanti a una camera non lo confesseranno mai per paura di una possibile futura punizione. In Act of Killing Anwar cerca disperatamente di mantenere vera una bugia. Personale e nazionale.

Ci colpiscono molto le risate dei carnefici. Ce le puoi descrivere meglio?
Sono sconvolto anche io da tre tipi di risate presenti in The Look of Silence. 1) Quando due carnefici camminano in riva al fiume, nel bel mezzo di un elenco di atrocità commesse, ecco che all'improvviso prendono un fiore, lo annusano e ridono 2) C'è una risata di un personaggio offeso dalle domande di Adi. “Come ti permetti di dirmi queste cose?” gli dice. E poi c'è una piccola risata 3) Alla fine del film quando si parla del fatto che un tempo non si poteva mangiare il pesce di un fiume per via del fatto che i pesci si erano nutriti dei cadaveri che venivano buttati in acqua... c'è una risata da parte di più persone come fose un aneddoto buffo.
Tre risate emblematiche del fatto che ridere è una protezione dalla realtà.

Il governo indonesiano ha detto che grazie a The Act of Killing si potrebbe parlare in futuro di riconciliazione nazionale. Ma allo stesso tempo tu sei persona non grata in Indonesia. Non è una contraddizione?
Il governo, secondo me, è stato costretto a dire qualcosa. Non poteva negare il massacro perché The Act of Killing faceva vedere degli assassini che confessavano e quindi era fuori discussione che fosse vero. Dopo l'enorme successo di The Act of Killing, la famosa rivista politica indonesiana Tempo ha mandato 60 giornalisti in giro per il paese in cerca di altri Anwar Congo. Ne sono uscite fuori 75 pagine di testimonianze che poi sono diventate un libro. The Act of Killing è un esperienza replicabile. Il governo non può più dire che gli orrori sono giustificati e quindi è forzato a riconoscere i massacri ma allo stesso tempo non vogliono che uno straniero ficchi il naso nei loro affari. I media indonesiani si sono indignati rimarcando il fatto che il mio coregista e tanti miei collaboratori chiave sono indonesiani ma sotto forma di anonimato per proteggerli. E quindi non si tratta solo di un americano impiccione.

Com'è la situazione ora?
C'è una cultura dinamica che viene dai miei collaborati e dalla famiglia di Adi. Loro vivono al nord di Sumatra, un luogo lontano dal raggio di azione degli assassini. C'è una certa speranza perché è stato eletto il nuovo presidente Joko Widodo, il primo che non viene dall'alta società o dall'ambiente militare. E' uno della classe media. Uno del popolo, si potrebbe dire. Lui dice che vuole occuparsi di diritti civili eppure ha assunto uno dei carnefici come vice presidente. Io non credo nei salvatori e non vedo in questo comportamento di Widodo una grande coerenza. Come puoi scegliere un carnefice come collaboratore importante per la transizione verso la riconciliazione? Sono realisticamente pessimista. Ma ho sempre speranza.

Ma a scuola si insegna ancora la bugia?
Sì e questo è assolutamente contraddittorio. Se il governo ora ammette che c'è stato una sorta di genocidio... allora perché negarlo a scuola davanti alle nuove generazioni? Questo è qualcosa che la società civile sta molto contestando.

E' possibile fare questo film negli Stati Uniti?
E' possibile fare un film critico nei confronti degli Stati Uniti della Guerra Fredda. Assolutamente sì. C'è una certa pigrizia adesso nei media per via del controllo della pubblicità nei confronti degli editori. Errol Morris mi ha chiamato e mi ha detto “Sto pensando a quello che accade quando non c'è giustizia e visto che tu hai affrontato bene questo argomento, ti vorrei attivo qui negli Stati Uniti ora. Non c'è giustizia qui perché la tortura è accettata così come le uccisioni dei droni decise dal governo. Appoggiamo regimi repressivi. Questa impunità è da risolvere”. Io gli ho risposto che sono interessato. Vorrei avere lo spazio e la libertà. Ci vuole tempo e libertà di sperimentare con il linguaggio cinematografico. E questo non possibile se non hai il final cut.

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