Venezia 71 - Fires on the plain, la recensione
Con Fires on the plain per la prima volta Tsukamoto affronta apertamente il conflitto tra uomini e la guerra in un delirio di cinema mitragliato nel cervello
La trama suona già come un film di Tsukamoto, il film dimentica le vecchie ossessioni per la mutazione della carne (ormai un ricordo dei primi decenni di attività) e si concentra sulla fragilità di essa (i colpi che arrivano dal cielo paiono trapassare corpi come fossero fatti di ricotta). La morte è in quasi ogni inquadratura e quando non si vede sembra essere pronta ad arrivare, perchè ogni elemento in questo film mette a rischio l'interezza del fisico. Il corpo umano non sembra mai così fragile come nel cinema di Tsukamoto, mai così pronto a "rompersi", "smembrarsi" ed essere dilaniato o aperto per qualsiasi sciocchezza come nelle sue inquadrature.
Ma non c'è niente di paragonabile ad altri film. Shinya Tsukamoto da 25 anni si esprime in un linguaggio filmico che è il solo a parlare, non ha epigoni nè punti di riferimento riconoscibili (se non il primo David Cronenberg per i temi e le ossessioni), riesce a toccare il cervelletto dello spettatore senza passare per la logica, scatenare reazioni e non pensieri, sensazioni e non emozioni.
Un finale non centratissimo (che peccato non aver chiuso tutto all'interno della parabola sull'isola) lascia l'amaro ma la preghiera violenta e furiosa dell'ultima inquadratura è un colpo che prima d'ora avevo visto solo nello stupendo The Fake.