Venezia 71 - Fires on the plain, la recensione

Con Fires on the plain per la prima volta Tsukamoto affronta apertamente il conflitto tra uomini e la guerra in un delirio di cinema mitragliato nel cervello

Critico e giornalista cinematografico


Condividi

C'è un libro questa volta alla base della storia dell'ultimo film del più visivo, istintivo e audace regista giapponese in circolazione. Si tratta della storia di un soldato durante la seconda guerra mondiale di stanza in un'isola delle Filippine, malato di tubercolosi si aggira tra ospedale e plotone ma ben presto in seguito ad una controffensiva tutti i suoi punti di riferimento sono maciullati in un delirio di pallottole, urla e carne dilaniata. Vaga a questo punto per una foresta che pare l'inferno, piena di soldati malati, impazziti, cannibali o solo a pezzi meditando la morte.

La trama suona già come un film di Tsukamoto, il film dimentica le vecchie ossessioni per la mutazione della carne (ormai un ricordo dei primi decenni di attività) e si concentra sulla fragilità di essa (i colpi che arrivano dal cielo paiono trapassare corpi come fossero fatti di ricotta). La morte è in quasi ogni inquadratura e quando non si vede sembra essere pronta ad arrivare, perchè ogni elemento in questo film mette a rischio l'interezza del fisico. Il corpo umano non sembra mai così fragile come nel cinema di Tsukamoto, mai così pronto a "rompersi", "smembrarsi" ed essere dilaniato o aperto per qualsiasi sciocchezza come nelle sue inquadrature.

C'è sicuramente molto del cinema di guerra (l'idea di fondo di ritrarre l'esperienza del protagonista come un inferno di pazzia in cui chiunque diventa una bestia e anche il percorso in scene sempre peggiori sembra venire da Apocalypse Now!) ma anche una capacità di giocare di sensazioni che si nota nel lento delirio di un uomo che non ha mai ucciso e in poco tempo si trova di fronte al suo primo omicidio, alla lotta per la propria sopravvivenza e al valutare l'opzione cannibalismo.

Ma non c'è niente di paragonabile ad altri film. Shinya Tsukamoto da 25 anni si esprime in un linguaggio filmico che è il solo a parlare, non ha epigoni nè punti di riferimento riconoscibili (se non il primo David Cronenberg per i temi e le ossessioni), riesce a toccare il cervelletto dello spettatore senza passare per la logica, scatenare reazioni e non pensieri, sensazioni e non emozioni.

Nella furia straordinaria del suo cinema Fires on the plain si colloca in una zona leggermente più morbida del solito, si concede più recitazione e più "narrazione", sebbene sia la consueta odissea di un personaggio solo (interpretato dal regista stesso come avviene di frequente). Addirittura il film rifiuta l'ambientazione cittadina, cioè lo sfondo di materia dura che opprime, violenta e massacra gli uomini (cioè la materia morbida), a favore di una natura splendida e tenerissima, indifferente ma abbagliante, dai colori saturi e il sole sempre chiaro.

Un finale non centratissimo (che peccato non aver chiuso tutto all'interno della parabola sull'isola) lascia l'amaro ma la preghiera violenta e furiosa dell'ultima inquadratura è un colpo che prima d'ora avevo visto solo nello stupendo The Fake.

Continua a leggere su BadTaste