Venezia 71 - The Cut, la recensione

Arriva in Concorso l'attesissimo The Cut del cocco dei Festival Fatih Akin. E' un'avventura storica quasi più picaresca che drammatica. Con pregi e difetti

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Dopo Atom Egoyan e Robert Guediguian tocca a Fatih Akin affrontare l'odissea di quel genocidio armeno per mano dei turchi accaduto a ridosso della I Guerra Mondiale e ufficialmente preso come punto di riferimento da Adolf Hitler per replicarlo in occasione dell'Olocausto.

Akin, di casa ormai ai Festival e vincitore giovanissimo di un Orso d'oro per il meraviglioso La sposa turca poi bissato da altri premi importanti a Cannes e Venezia, decide di raccontare con The Cut la storia del massacro degli armeni da parte dell'Impero Ottomano attraverso le avventure di un fabbro felice e con bella famiglia, dal 1915 al 1923.
Si chiama Nazaret e porta una croce sul polso.

Presto la porterà anche sulla schiena per un calvario lungo otto anni.

Lo interpreta il di solito bravissimo Tahar Rahim, qui un po' troppo imbambolato e caricaturale nelle espressioni nonché drammaticamente troppo giovane per il ruolo. Strano perché Rahim, daitempi de Il profeta, sembra sempre dimostrare più anni di quelli che ha. La sua sarà un'avventura ricca di viaggi, dolori e scoperte più amare che felici. Il dramma storico di guerra per Akin è un utilizzo di inquadrature dal respiro pittorico, e a volte dalla forza compositiva sublime, che rappresentano una realtà in cui gli uomini brancolano come formiche che possono essere spazzate via dal primo refolo di vento. Da questo punto di vista è interessante la differenza di impostazione sull'utilizzo della star, attraverso le lenti per inquadrarla e il rapporto con lo spazio, da parte di Akin rispetto al più patinato David Oelhoffen di Loin De Hommes, dove Viggo Mortensen sembra sempre un gigante e un totale dominatore dell'ambiente che attraversa. Qui invece Rahim è piccolo piccolo mentre la fotografia dai colori leggermente sbiaditi ricorda un kolossal degli anni '60 dove le battute dei personaggi sono sempre emblematiche, sintetiche e a volte troppo semplicistiche. Come l'utilizzo di un inglese che sa molto di produzione internazionale di largo consumo e quindi anche annacquata e pressapochista.

Ben sette paesi produttori! Tra cui anche noi.
Ne esce fuori un picaresco senza sesso e umorismo dove il fabbro diventato muto per via di una coltellata alla gola sfuggirà ai turchi, verrà salvato da un produttore di sapone (metafora fin troppo semplice di un momento in cui ci si può lavare via di dosso la sozzura della guerra) e comincerà una ricerca spasmodica di moglie e figlie attraverso predoni del deserto, cognate bisognose di eutanasia, Charlie Chaplin come specchio vitale (è muto anche Charlot come il nostro protagonista), una colorata Cuba pre-rivoluzione castrista e degli Stati Uniti abitati da energumeni violenti tremendamente simili per Akin a quei turchi che violentavano le donne per strada e odiavano gli armeni al punto da progettarne lo stermino con la scusa della Grande Guerra.

Quello che colpisce di più è proprio il forte parallelismo che Akin propone tra Stati uniti finali e Turchia iniziale.

Come dire: i prevaricatori di ieri e i prevaricatori di oggi.

E' un film tremendamente irrisolto, didascalico e recitato senza particolare intensità da Rahim (qualcosa è andato storto tra lui e Akin?). Ma la mano del regista di Soul Kitchen e La sposa turca, anche se più contenuta e superficiale del solito, si sente per quel riverbero di nervosa chitarra elettrica sullo sfondo (ci ha ricordato lo score di Neil Young per Dead Man di Jarmush) e per delle inquadrature semplicemente perfette (il fabbro inquadrato dall'alto mentre prende un treno in corsa è degna di Spielberg) che fanno scorrere con leggerezza 137 minuti dove non manca il respiro epico di un treno che si allontana in lontananza con due soldati che ti vorrebbero sparare sul tetto.
E' un dramma storico ipercommerciale ma da quando arriva Chaplin, ancora citato in Concorso dopo il belga La Rançon de la Gloire, sale nettamente di tono perché la recitazione di Rahim sembra, dopo aver visto le smorfie di Charlot, molto più coerente all'approccio di combattiva commedia delle difficoltà che evidentemente Akin aveva in mente.

Un tema di fondo è il mutismo. Muto è il protagonista, muto è Chaplin che lo fa ridere al cinema per la prima volta dopo dolori ed orrori, muta è la sequenza più bella in cui lui entra in una sartoria alla ricerca delle figlie per essere fronteggiato da un gentile cameo di Moritz Bleibtreu.
C'era così bisogno di quel brutto colpo di scena finale in cui torna la parola?

Forse no.

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