Venezia 71 - The cut, la recensione [2]

Per affrontare serenamente The cut occorre dimenticare tutto quello che si sa di Fatih Akin e immaginare di essere in aula magna al liceo

Critico e giornalista cinematografico


Condividi
Fatih Akin è uno dei migliori registi europei, padroneggia tutti i registri e le tecniche che nei suoi momenti migliori mette a all'opera in storie e su personaggi dalla vitalità incontenibile (sia nel bene che nel male), pure macchine d'istinto, che come fossero fatti di vetro non riescono a nascondere niente o forzarsi in alcuna repressione degli istinti e delle volontà. Con The Cut aggiunge al suo campionario di capacità registiche anche il grande affresco storico ma nel farlo letteralmente vende la propria anima. Come fosse stato rimpiazzato da un alieno di L'invasione degli ultracorpi dirige un filmone grande e grosso senza nessuna personalità, che già dalla lingua usata (un fastidiosissimo e falso inglese ecumenico in bocca a fabbri armeni dei primi del novecento) tradisce la volontà di perdere individualità ed acquistare benevolenza presso il pubblico più ampio possibile.

Nella più classica delle storie di diaspora personale e odissea per il ricongiungimento un padre perde le figlie durante il grande genocidio armeno. Sopravvissuto per miracolo (ma diventato muto per il taglio alla gola del titolo) affronterà difficoltà insormontabili e viaggi impensabili per ricongiungersi con la propria famiglia o quel che ne resta. La piccola storia nella grande storia, un classico che nelle mani di un maestro del kolossal avrebbe dato vita a movimenti disperati commoventi, piccoli quadri di avventura e indomabile volontà. In The Cut invece c'è tutto tranne questo, dalle molte nozioni, alla lettura storiografica da libro di testo fino ad uno spazio immancabile per la commozione (ben delimitato e chiaro, in modo che tutti si commuovano nel medesimo punto). The cut sembra un film girato da un produttore, nonostante lo spiegamento di abilità e la fluidità del racconto fuori dal comune.

Tutti i cattivi ringhiano e dichiarano apertamente la propria malvagità: "Ma che è morto?" - "E chissenefrega" dicono due operai dopo aver tramortito il protagonista, a sottolinearne la spietata cattiveria. É il terzo capitolo della trilogia Amore, Morte e Satana e di quest'ultimi ce ne sono ma sono così rossi e con il forcone in mano che non mettono mai davvero paura.
Perchè un cineasta così umano e concreto, uno dei pochissimi che sembrano conoscere sul serio quali sono quei minuscoli dettagli che tradiscono un sentimento e rivelano un pensiero, abbia deciso di dimenticarsi d'essere una delle menti più lucide del cinema europeo e abbia deciso di abbandonarsi al fiume del consenso, alla melassa istituzionale, popolare solo a parole, è un mistero. Spero almeno lo abbiano pagato bene e ci finanzi un altro film. Uno vero però.

Continua a leggere su BadTaste