Venezia 71 - Pasolini, la recensione
Arriva l'attesissimo Pasolini di Abel Ferrara con Willem Dafoe nel ruolo dell'artista italiano. Una pellicola non memorabile
Il quinto film in Concorso a Venezia di Abel Ferrara (una storia d'amore tra lui e la manifestazione scoppiata nel 1993 con il torrido Snake Eyes) è anche uno dei suoi più brutti soprattutto vista l'altezza vertiginosa del soggetto in questione: Pier Paolo Pasolini. La prima grande curiosità di Pasolini era legata alla parlata di Dafoe, il quale alterna un italiano con pesantissimo accento americano ("Mi alzo mama", "Yes mameta", "Petto e polo" "Le spagheti" "Mica ti fichi nei guai?") a un americano fluido senza che ci sia un grande senso nelle scelte. Anzi c'è. Quando Pasolini deve condurre un'intervista impegnativa con un giovane Furio Colombo (Francesco Siciliano), Dafoe parla in inglese visto che l'eloquio deve permettere fluidi attacchi alla società capitalista, riflessione sui suoi film ("O li faccio o mi suicido" proprio come dice Woody Allen) e visione pessimistica del futuro ("L'inferno sta salendo verso di noi"). Quando Pasolini deve scambiare due-chiacchiere-due con amici, familiari o ragazzi di vita, ecco Dafoe suicidarsi con le sue mani facendo finta di essere un turista americano del Wisconsin in cerca di qualcuno con cui perfezionare la pessima pronuncia italiana. Peccato, perché l'idea di Ferrara di nascondere il poeta, artista, intellettuale, regista (ma nel passaporto preferisce mettere sempre e solo "scrittore") a favore delle sue ultime fantasie (Roberto Zibetti è Carlo, il protagonista del postumo Petrolio mentre Andrea Bosca è il protagonista di un racconto dentro Petrolio) poteva non essere una cattiva idea soprattutto se le sue ultime 24 ore di vita fossero state messe ancora più in relazione con la simpatica ricostruzione dell'ultimo progetto non realizzato Porno-Teo-Kolossal (viene letta una lunga e noiosa lettera di Pasolini a Eduardo De Filippo) in cui due ottimi Riccardo Scamarcio (sarà Ninetto Davoli in un'altra scena) e Ninetto Davoli inseguono una cometa fin sulle scale del Paradiso. Come dire: per raccontare l'ultimo Pasolini, meglio concentrarsi sull'artista pugnace e divertente che sarebbe diventato piuttosto che sul nichilista un po' trombone che era finito per essere. Sarebbe stato un approccio veramente rivoluzionario al concetto di biopic. Ma è solo una tenue traccia di idea che non diventa mai sostanza.
In poche parole: ogni volta che Pasolini non è in scena, il film regge. Ogni volta che Pasolini entra in scena il film crolla. Non solo perché abbiamo visto questa versione bilingue che lascia parecchio a desiderare (interverrà Fabrizio Gifuni a dare la voce al regista di Salò per tutta l'edizione italiana) ma anche perché Dafoe è cattedratico (concetto odiato da Pasolini stesso), retorico e sempre pronto a pontificare in ogni singolo fotogramma del film.
La sua prova è una faccia scarabbocchiata appiccicata con lo scotch a un brand che vende ancora molto.
Ben superiore fu l'Alberto Testone (di mestiere odontotecnico) del pochissimo visto Pasolini, la verità nascosta (2013) di Federico Bruno.
Chissà cosa avrebbe pensato Pasolini di questa idea. Chissà se avrebbe ritenuto un film su di lui come una mercificazione della sua persona.
Forse Abel Ferrara e Willem Dafoe avrebbero dovuto impegnarsi un filino di più.
La sensazione è che questo Pasolini sia una produzione poco seria, cotta e mangiata, con momenti musicali atti solo a riempire e lunghe camminate dei personaggi a introduzione delle scene per girare del materiale e arrivare così agli agognati 87 minuti.
I personaggi camminano tutti molto in questo film. Che si racconti l'ultima giornata di Pasolini, quasi non si capisce. Che la Laura Betti di Maria de Medeiros e la Susanna Pasolini (è la mama) di Adriana Asti siano due macchiette, è evidente da come le signore caricano ogni singola battuta. Mogia l'assistente Graziella di Giada Colagrande e insignificante il Nico Naldini di un Valerio Mastandrea che ha un'aria della serie: "Ma come ci sono finito io dentro questo film?".
Casa Pasolini sembra meno vivace di Casa Vianello e nulla si aggiunge, tranne il ridicolo accento americano, alla figura di uno dei più grandi provocatori del '900. Anche la morte (per Ferrara non esiste alcun complotto) per mano di tre balordi, con l'aiuto dell'adescato Giuseppe Pelosi, è girata da Ferrara senza un briciolo di intensità. Quando filmava i cadaveri (Mamma Roma) a volte Pasolini si ispirava a Mantegna.
Qui Ferrara sembra ispirarsi a un action movie di serie B.