Venezia 71 - One on one, la recensione

Di tortura in tortura stavolta Kim Ki-Duk affronta apertamente il tema della violenza che corre lungo tutto il suo cinema

Critico e giornalista cinematografico


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Stavolta la consueta odissea di Kim Ki-Duk nella violenza è un film di vendetta che inizia con l'omicidio di una ragazza (una cosa fatta bene e metodica, organizzata e pianificata) e si distende nella ricerca, cattura, interrogazione, tortura e punizione dei singoli responsabili da parte di una milizia autodeterminatasi giustiziere.

Per Kim Ki-Duk non è possibile mai mostrare il bianco senza far vedere il nero e questa è la sua forza. La violenza efferata che tempesta i suoi film non è mai piacevole per lui, anzi la odia ma non può concepire di mettere in scena il suo opposto senza di essa e più vuole volare alto più si sente in dovere di cadere in basso nell'impressionabile. Per questo come pochi altri sa riprendere e mostrare il dolore fisico (perpetrato e inflitto), perchè ne ha un tangibile terrore e questo si vede.

Uno ad uno i responsabili sono catturati, interrogati in malo modo con sbrigativa insistenza e poi si passa al massacro. Più si va avanti però più nel gruppo di giustizieri si insinua il dubbio che quel che accade sia corretto, che non si stia esagerando, solo il capo mantiene salda la fede nell'obiettivo finale. C'è spazio quindi per tutte le letture del mondo, dalle dittature fino al male come germe, dalla necessità del ribellarsi fino all'istinto vitale, dalle elite che si disinteressano delle masse fino ai falsi profeti e via dicendo. Ma quel che davvero riesce a fare di stupefacente Kim Ki-Duk in One on One è tornare ad usare il dolore inferto e subito come moneta di scambio.

Approfittando di tutti i topoi delle torture al cinema (rivelazione di piani, trattative, ripensamenti ecc. ecc.) riesce a prendere quest'elemento che è sempre presente in tutti i suoi film e tramutarlo in una partita di giro che i protagonisti si scambiano (toccherà a tutti) instillando il serio dubbio nello spettatore se si tratti di qualcosa di sempre uguale o no. Dopo mille film con gente che si mena er la prima fa un film sulla violenza stessa. Esiste qualcosa come "l'esserselo meritato"? É possibile aver inseguito il proprio destino fino a che esso non sia ineluttabile? Si deve accettare un omicidio se questo è richiesto dalla vittima stessa? E infine: la morte può essere una forma di purificazione personale?

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