Venezia 71 - One on one, la recensione
Di tortura in tortura stavolta Kim Ki-Duk affronta apertamente il tema della violenza che corre lungo tutto il suo cinema
Per Kim Ki-Duk non è possibile mai mostrare il bianco senza far vedere il nero e questa è la sua forza. La violenza efferata che tempesta i suoi film non è mai piacevole per lui, anzi la odia ma non può concepire di mettere in scena il suo opposto senza di essa e più vuole volare alto più si sente in dovere di cadere in basso nell'impressionabile. Per questo come pochi altri sa riprendere e mostrare il dolore fisico (perpetrato e inflitto), perchè ne ha un tangibile terrore e questo si vede.
Approfittando di tutti i topoi delle torture al cinema (rivelazione di piani, trattative, ripensamenti ecc. ecc.) riesce a prendere quest'elemento che è sempre presente in tutti i suoi film e tramutarlo in una partita di giro che i protagonisti si scambiano (toccherà a tutti) instillando il serio dubbio nello spettatore se si tratti di qualcosa di sempre uguale o no. Dopo mille film con gente che si mena er la prima fa un film sulla violenza stessa. Esiste qualcosa come "l'esserselo meritato"? É possibile aver inseguito il proprio destino fino a che esso non sia ineluttabile? Si deve accettare un omicidio se questo è richiesto dalla vittima stessa? E infine: la morte può essere una forma di purificazione personale?