Venezia 71 - Nymphomaniac Volume I e II: Director's Cut, la recensione
Con Nymphomaniac, presentato in versione integrale al Festival di Venezia, Von Trier riflette e fa riflettere sulla colpa, sul perdono e sull'arte
E poi, c'è Lars von Trier. L'uomo che si è preso l'arrogante briga di stilare un manifesto, quel Dogma 95, talmente radicale da rinnegare tutti i dettami del buon cinema tradizionale, per poi distaccarsene sempre più nel corso degli anni, fino ad arrivare al film - o meglio, ai film - proiettati in laguna nei giorni scorsi. Se si dovesse rintracciare una costante del cinema di questo scontroso, cinico maestro, si potrebbe dire: porta sempre il risultato a casa. Che piaccia o meno, in contrapposizione agli italici esempi sopra elencati - non che questo sia un problema esclusivamente nostrano, chiariamo - il controverso Trier o Von Trier, come ha voluto ribattezzarsi in nome di uno snobismo provocatorio quanto ironico, ha sempre avuto ben chiaro significato e significante dei propri film. Chi lo definisce genio visionario si troverà a dover riflettere di fronte alla sua ultima, complessa opera: Nymphomaniac, divisa in due volumi e presentata per la prima volta in versione estesa al Festival di Venezia nei giorni scorsi. Già, perché il progetto in questione ha sicuramente una forte componente visionaria, ma ciò che lo distingue nettamente dai tanti deliri pseudo-artistici che ammorbano il cinema indipendente è la ferrea necessità e coerenza di ogni singolo passaggio narrativo, per quanto stravagante. Nulla è lasciato al caso, nulla è nozionismo fine a sé stesso; nulla, ancora, è masturbazione artistica dell'artista che parla da solo, invece che parlare agli altri. Lars von Trier dialoga col pubblico, lo coinvolge e lo stimola attraverso continue riflessioni, per bocca della sua protagonista, Joe (interpretata da un'eccelsa Charlotte Gainsbourg e, nei flashback giovanili, dalla rivelazione Stacy Martin) o del suo canuto, compassato interlocutore Seligman (un altrettanto pregevole Stellan Skarsgård).
Nymphomaniac è l'apoteosi dell'eclettismo formale, senza per questo risultare mai sconclusionato. È pregno di una grammatica libera e visivamente eccitante, che spazia dai filmati sgranati di YouTube fino a sequenze al limite della videoarte - cosa a cui Von Trier ci aveva già abituati con Antichrist e Melancholia. Il regista danese cita (Tarkovskij) e si cita (memorabile la scena del bimbo che si affaccia alla finestra, mentre Lascia ch'io pianga di Handel riporta alla mente il tragico prologo di Antichrist), stravolge la continuità - il personaggio principale cambia colore di occhi a seconda dell'età - ma si attiene, al contempo, a delle rigide regole che si è imposto egli stesso. Sussiste la divisione in capitoli - splendidi, evocativi, poetici - desunta dalle sue opere precedenti, a confezionare un'antologia di racconti di vita legati dal fil rouge di Joe.
La ricchezza di temi e di stili di un progetto come Nymphomaniac è il miglior manifesto di cinema che si possa desiderare, perché prescinde dalla storia che racconta - splendida, intensa e interessante, chiariamo - e si preoccupa di raccontarla in modo davvero poetico. Sì, poetico, senza il peso calligrafico e saputello della poesia, ma con tutta la sua irrefrenabile energia creativa. Leopardi scrisse che "una poesia ragionevole, è lo stesso che dire una bestia ragionevole". A pochi giorni dalla presentazione di Il giovane favoloso, che ha ridotto la poesia a un ragionevolissimo riassunto da Bignami, Von Trier schiaffa le pudenda di uomini e donne sullo schermo, li avvinghia in tutti i modi possibili, e ne fa il ragionato - ma mai ragionevole - veicolo per parlare di musica, di religione, di filosofia, di matematica, di arte figurativa, di sport. Della cultura in tutte le sue accezioni più alte e più popolari, quella cultura incarnata da Seligman che della vita empiricamente intesa sa ben poco, contrapposto a Joe, donna che la sua cultura la porta impressa nei lividi del volto e nelle piaghe del corpo.
Inoltre, cosa da non sottovalutare, rende il suo viaggio sessuale veicolo di spiegazioni. Lo sappiamo, il buon Lars non lo ammetterà mai: ma Nymphomaniac contiene molti, moltissimi riferimenti alle polemiche sollevate in passato dalle scomode dichiarazioni dell'autore su nazismo, antisemitismo, pedofilia e via dicendo. Finalmente, nel modo che meglio gli si addice - cioè dietro la macchina da presa e lontano dalle conferenze stampa pullulanti di giornalisti pronti al sensazionalistico massacro - il regista chiarisce; e, tanto per cambiare, usa questi chiarimenti per suggerire una riflessione profonda e acutissima, che mette in luce la complessità di tematiche troppo spesso semplificate dal buonismo più ottuso e ignorante - o, peggio, ipocrita. Non esistono esseri umani cattivi, dice Seligman - che più volte si contraddice nel corso del racconto; e Joe non gli crede, insiste a definirsi un individuo abietto ed egoista, che ha causato solo dolore a coloro che l'hanno conosciuta e talvolta amata. Ma l'odissea di questa donna colpevole alla ricerca di un'assoluzione che non può arrivare dall'alto, ma solo da sé stessa, finisce per coinvolgere lo spettatore grazie al valore simbolico della sua storia. Von Trier parla di sesso, certo, come i grandi poeti possono parlare di rocce, di deserti, di stelle e di tempeste: ciò che si cela al di là del significante, tuttavia, è qualcosa di universale, che abbraccia tutti i fruitori, coinvolgendoli in un'unica, caleidoscopica meditazione sulla vita, sulla morte, sulla colpa e sul perdono. Il perdono vince sull'odio, dice Von Trier tra le righe, ma non parla di reciprocità: il primo perdono deve essere verso noi stessi, perché solo perdonandosi ci si può liberare dalla propria croce.
Ben vengano film come Nymphomaniac, con tutta la crudezza che lo contraddistingue: ben venga il sangue, ben vengano la violenza e il sesso urlato. E ben vengano le citazioni letterarie, artistiche, religiose, persino politiche: attraverso il filtro di Von Trier, ogni cosa diventa poesia. Quella poesia universale e ricca, che insegna al di là del nozionismo, fornendo al pubblico gli strumenti più disparati per poter ragionare. Bravo, Lars; tanto di cappello a un maestro fuori cattedra che sa ancora farci riflettere.