Venezia 71 - Senza nessuna pietà, la recensione

Un noir italiano non ben fatto ma che funziona. Senza nessuna pietà è un piccolo miracolo che vola sopra i suoi difetti grazie (una volta tanto) ai protagonisti e ad una trama archetipa infallibile

Critico e giornalista cinematografico


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Nella semplicità archetipa della trama sta tutto il suo fascino. Mimmo è un sgherro di un piccolo clan mafioso romano, imprenditori edili che fanno impicci, gestiscono prostitute e chiedono un po' di pizzo. Lui è il nipote del boss, un po' scemo, una montagna di cento chili, bolso ma preciso e affidabile, se non lavora al cantiere lo mandano a riscuotere i soldi o a ritirare escort, incarichi di poco conto e poca responsabilità. È una persona silenziosa e tranquilla, lui semplicemente non vuole problemi, invece i problemi verranno da lui nella persona di Tanya (rigorosamente con la y), ragazzina-escort da portare in pasto al cugino (il figlio del boss, dallo squallido stile opulento-mafioso). Per colpa di Tanya Mimmo perde la ragione e fa quel che non dovrebbe fare. A quel punto al timido (ma violento) Mimmo e alla spregiudicata (ma disperata) Tanya non rimane che nascondersi e cercare di scappare prima che il clan li faccia fuori.

È Carlito's Way, in un certo senso, un noir in cui l'uomo perde la testa ma non cade nel crimine anzi vuole fuggire con una donna ma è anche di più (e di meno) al tempo stesso. Perchè prima di andare oltre (a me il film è piaciuto, c'è poco da dire) bisogna precisare che Senza nessuna pietà non è certo privo di problemi, difetti e intoppi. Anzi! In più di un caso sembra giocare contro se stesso e le sue buone idee, sembra non sfruttarle davvero e stentare moltissimo a creare quel fondamentale anelito di libertà e felicità e che dà tensione alla fuga. Se non vedo per i protagonisti un domani migliore insieme non starò con l'ansia che riescano a fuggire insieme e non sempre questo è reso a dovere, come non sempre l'etica e la morale (un tassello fondamentale dei film di crimine) sono sottili, ad esempio il dialogo finale con il boss Ninetto Davoli affossa ogni complessità fino a quel momento suggerita.

A fronte di tutto questo però c'è un grande impegno di Favino in un ruolo abbastanza canonico (il gigante con il cuore sensibile, il disperato poco intelligente), artista della "parolina aggiunta", cioè di quelle battute in più improvvisate, delle piccole cose messe in bocca al personaggio en passant e senza importanza ma che lui sa trovare in un repertorio di piccoli romanismi dalla grande verità (roba che rimane in testa anche più delle battute scritte) e un buon connubio con Greta Scarano (come ogni film diretto da un attore ha una messa in scena sbilanciata sul fronte della recitazione), loro due insieme ti fanno venir voglia di credere alle molte deviazioni e alle stranezze di questo film che a fronte della sua trama canonica si rifiuta di essere canonico.

Come quando i due, braccati da tutti, finiscono al mare e si concedono un'assurda giornata di relax e bagni, come se ci trovassimo in Sonatine di Takeshi Kitano. Oppure quando Mimmo si confronta con i vecchi amici, ora inevitabilmente nemici incaricati di farlo fuori, sembra di essere davanti ad un polar francese in cui alla fine la cosa più importante di tutte è capire chi per amicizia è disposto a fregarsene delle barricate e chi no. Tutto questo sospinge Senza nessuna pietà oltre i suoi evidenti limiti (ma per carità ha anche dei pregi, come la ricerca di una fotografia di dettagli appiccicata agli attori e l'uso della tavolozza di colori giusta) e alla fine riesce a dire qualcosa sulla lotta di questo assurdo uomo semplice che si è ribellato senza nemmeno sapere perchè alla ricerca di non sa nemmeno lui bene cosa e che ora suo malgrado deve subirne le conseguenze.

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