Venezia 71 - Manglehorn, la recensione

Arriva in Concorso a Venezia 71 Manglehorn di David Gordon Green, secondo film di seguito in laguna con Al Pacino dopo The Humbling di Levinson

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Il dittico Al Pacino si chiude alla Blow Up di Antonioni... ma non a Londra bensì in Texas.

Dopo averlo visto divertirsi un mondo ad essere umiliato e dominato nel nonsense autunnale da Philip Roth The Humbling, ecco il Padrino delle star hollywoodiane della 71esima Mostra di Venezia tornare a fare il duro, burbero e manesco nel discontinuo, interessante ma dimenticabile in fretta Manglehorn dell'imprendibile stakanovista David Gordon Green per il secondo anno in Concorso dopo il superiore Joe del 2014.

Chiusa la Trilogia del Texas di Uomini Duri alle Prese con il Loro Lavoro. Dopo Prince Avalanche e Joe, Green ci fa conoscere lo sgradevole Angelo Manglehorn proprietario di una ferramenta ricca di ogni tipo di chiavi tranne quella per la felicità.
E' un uomo solo, irrancidito dal tempo, rugginoso come i ferri che conserva nel suo negozio e che non si sa come entrano nel corpo del suo amato gatto persiano. Cosa c'è che non va in lui?

Lo seguiremo mentre ciondola tra un luogo e l'altro borbottando in un flusso di coscienza tipico dei protagonisti maschili dominati dal loro ego di questa edizione del Festival lagunare.

Ma Angelo non è un attore. E' un ferramenta ex coach di baseball incapace di stabilire una connessione con il prossimo, che si tratti del figlio manager di successo (bravo Chris Messina) o del faccendiere di origini libanesi (un fantastico Harmony Korine) che vive nel suo mito e lo insegue proponendogli donne e divertimenti.

C'è un rimpianto dal nome Clara nella vita di questo concentrato di rabbia e sgradevolezza. Una donna conservata nel suo subconscio a forma di scantinato (ma non bastava la metafora?) così ossessivo e parossistico da essere degno di figurare in un serial killer movie alla Silenzio degli innocenti.

La pellicola di Greene, regista così svelto ed eclettico da essere chiaramente il nuovo Steven Soderbergh, è affascinante quanto ricca di vuoti che un po' danno fastidio e un po' ti fanno pensare che forse questo sarebbe stato un ottimo pilota di una serie tv che ci avrebbe permesso di conoscere Angelo di episodio in episodio. Il finale, commovente in chiave cinefila visto l'affettuoso rimando al capolavoro di Antonioni, è troppo alla Mary Poppins e i tanti riferimenti cinematografici (Scarface, Dolce vita,  Week End di Godard) un poco cozzano con la rudezza texana di un racconto che non si vorrebbe così ammiccante e citazionista.

La cosa più bella è una Holly Hunter bravissima come contraltare dolce alla ripetitiva linea aggressiva di Pacino.

Il film è come lei: un po' troppo buono con Angelo Manglehorn.

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