Venezia 71 - Loin des hommes, la recensione

David Oelhoffen concorre al Festival di Venezia con Loin des Hommes, grande prova attoriale di Viggo Mortensen

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La luce calda delle candele che stende rapide pennellate di rosso e arancio nel buio, come in un quadro di Georges de La Tour, delineando il profilo segnato e bellissimo di Daru (Viggo Mortensen) e del suo giovanissimo, sgradito - almeno inizialmente - ospite Mohamed (Reda Kateb). Due uomini diversi e uniti dal destino nell'Algeria dilaniata dai moti indipendentisti del '54. Il primo, maestro elementare di origine spagnola che insegna a leggere alla sua classe di piccoli arabi nel bel mezzo del deserto; il secondo, catapultato in casa di Daru perché accusato di aver ucciso il cugino. Daru dovrebbe scortare Mohamed dritto dritto nelle mani dei francesi - il che vorrebbe dire, dritto dritto sulla forca. Il dilemma attanaglia il buon maestro, che alla fine intraprende con Mohamed questo viaggio impervio - non solo geograficamente - verso il più vicino avamposto. Inutile precisare che il caso - o la sorte, fate voi - ci metterà lo zampino più d'una volta.

"Ecco un film da Festival". Una frase che, da queste parti, si sente sempre meno spesso, nel bene e nel male. Sia perché, fortunatamente, il criterio di selezione della giuria diventa, anno dopo anno, più flessibile, rendendo quasi impossibile applicare ancora questa obsoleta classificazione; sia perché, sfortunatamente, questa flessibilità comporta anche la presenza sempre più massiccia di film che non solo non sono da Festival, ma in generale non sarebbero nemmeno da minisala di ultima categoria.

Tuttavia, se ci fosse un'accezione buona dell'appellativo "film da Festival", probabilmente sarebbe il miglior modo di definire Loin des hommes del francese David Oelhoffen. I motivi sono vari e validi: dalla sobria eppure mai tediosa regia, alla splendida resa recitativa dei due protagonisti, alle note semplici ma suggestive Nick Cave e Warren Ellis, passando per una sceneggiatura che non si perde in fronzoli inutili, giocando di sottrazione persino in scene al limite del telefonato. E, non ultima, la fotografia superba, che conferisce al racconto solitario del viaggio di Daru e Mohamed la possenza dei grandi racconti epici. E non è un caso che, più di una volta, il pensiero torni alla jacksoniana trilogia del Signore degli Anelli, che con il deserto algerino ha poco o nulla a che vedere: ma il respiro visuale del film di Oelhoffen è davvero hollywoodiano - anche stavolta, nell'accezione migliore del termine.

Ma di Hollywood manca il melodramma, ed è un bene: Oelhoffen dribbla con sapienza qualsiasi patetismo di maniera, persino nell'intenso finale, trattenuto e coraggiosamente scevro di autocompiacimenti piagnucolosi che, forse, avrebbero fatto versare qualche lacrima in più al pubblico, a scapito della riflessione. Ma se c'è una cosa che un film "da Festival" deve saper fare, è proprio mettere in moto la riflessione, che sia artistica o morale; e Loin des hommes non sfoggia nessuna presunzione tipica dei film "da Festival", ma innamora l'occhio e affeziona il cuore senza ricatti etici di pseudo-attualizzazione, eternando anzi la vicenda di Daru e Mohamed e facendoli assurgere, dal realismo polveroso in cui si muovono, nell'Olimpo dei grandi archetipi.

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