Venezia 71 - Giulio Andreotti. Il cinema visto da vicino, la recensione

Un fenomenale saggio di storia dell'industria italiana che risolve molte diatribe e spiana la strada per una nuova lettura di un pezzo fondamentale del nostro cinema

Critico e giornalista cinematografico


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É un lavoro pazzesco e meritorio quello fatto da Tatti Sanguineti in questo documentario che si presenta come un saggio audiovisivo che fa un uso del materiale di repertorio che andrebbe studiato. Raccontare per bene e con un uso azzeccato dell'immagine cosa sia stato, cosa abbia fatto e in virtù di cosa abbia agito Giulio Andreotti nei riguardi del cinema durante il periodo in cui era sottosegretario della Presidenza del Consiglio con delega alla cultura (1947-1954). Il periodo era cruciale, c'era un'industria intera da far ripartire (a cominciare da Cinecittà, piena di profughi di guerra e totalmente dismessa), il cinema americano da arginare (8.000 pellicole mai uscite stavano per arrivare tutte insieme nelle nostre sale) e interessi di partito da curare (era pur sempre la Democrazia cristiana).

Sanguineti intervista tanto e a lungo Andreotti, si fa raccontare tutto e gli sottopone uno per uno moltissimi dei tagli effettuati dalla commissione censura nel periodo in cui la presiedeva (disponendo in alcuni casi anche delle parti tagliate desunte dalle versioni internazionali). Addirittura ha raccolto molte note scritte a mano dal giovane Andreotti per richiedere tagli e spiegare motivazioni e le usa per inchiodare con grande gentilezza e umorismo il suo autore. Nel fare questo trova in Andreotti sia conferma delle scelte effettuate che perplessità di fronte a tagli apparentemente inutili. Molto è spiegato con riferimenti ai tumulti dell'epoca (non c'è da essere daccordo o meno ma da comprendere) e molto altro con grande abilità di regista è indirettamente detto da Sanguineti che spesso indugia sulle parti in cui Andreotti racconta la propria formazione e la propria vita per sottolinearne l'aderenza a quella clericale. Siamo davanti ad laico formatosi come un prete.

E a questo prete mancato chiede conto sia di dettagli che di episodi clamorosi (è ampio il tratto su la diatriba intorno ad Umberto D. e i panni sporchi da lavarsi in casa) per far uscire un racconto clamoroso e illuminante di un pezzo di storia dell'industria del cinema italiano che riabiliti quello specifico lavoro di Andreotti. Sanguineti ne illustra i moltissimi meriti senza nasconderne mai le tante ridicole pecche e soprattutto mettendo a confronto quella gestione con il disastro effettuato da chi l'ha seguito.
Ma c'è anche qualcosa di più. Quel che si intuisce tra le righe è una visione del cinema italiano dell'epoca da parte di uno spettatore comune chiamato a decisioni non comuni, un racconto di quegli anni che in certi momenti è privo di prospettiva storica, come se fosse fatto non oggi ma direttamente nel periodo a cui fa riferimento.

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