Venezia 71 - Il giovane favoloso, la recensione [2]
Martone presenta a Venezia Il giovane favoloso, scolastico biopic su Leopardi con qualche sprazzo di coraggio davvero encomiabile
No, non lo dice Califano: lo dice Elio Germano nei deformi panni di Giacomo Leopardi, protagonista di Il giovane favoloso di Mario Martone, presentato oggi al Festival di Venezia. La frase è emblematica e straordinariamente calzante per descrivere lo scolastico biopic del regista italiano, che dopo essersi dilettato a insegnare al pubblico cosa fosse il Risorgimento con Noi credevamo, torna al Lido per la sua seconda lezione da liceo, passando senza batter ciglio dalla storia all'italiano - ci si chiede a questo punto se, la prossima volta, deciderà di istruire gli spettatori su geografia, filosofia o matematica.
Il giovane favoloso, a dispetto del titolo, non è un film giovane, né tantomeno favoloso. Questo, di per sé, non sarebbe un problema: ciò che dispiace è che non sia un film davvero disperato. Il dolore inconsolabile di Giacomo Leopardi viene riferito, riportato, diviene oggetto di discussione tra gli intellettuali di Firenze e Roma: eppure, poco o niente di questa ferita interna ci arriva direttamente addosso, se non per colpa del suo progressivo rattrappirsi. E dire che Elio Germano ce l'ha messa davvero tutta, nel suo torcersi come un fiore seccato dal sole: o, per riagganciarci direttamente al film e al poeta, come la ginestra cresciuta "su l'arida schiena del formidabil monte sterminator Vesevo", che sancisce il finale improvviso, forse sbagliato - e, per una volta, impavido - di questo monumento decoroso ma non memorabile, come la grandezza di un poeta come Leopardi avrebbe meritato.
Tuttavia, nella patinata ricostruzione da inserto di Super Quark, fanno irruzione elementi che turbano la quiete (o noia che dir si voglia). L'elemento di rottura ha il volto di Michele Riondino, che le frasi fiorite del linguaggio ottocentesco le mangia e le sputa come se avesse sempre parlato quella lingua, conferendo al suo Antonio Ranieri - unico, ultimo grande amico del poeta ormai vicino alla prematura fine - una veridicità "presente e viva", per citare Leopardi stesso. È lui il veicolo più evidente delle - rare - scelte coraggiose di Martone: lui che porta l'amico malato in un bordello dove, almeno nelle sue intenzioni, dovrebbe consumarsi la sua tardiva deflorazione a opera - udite udite - di un travestito; lui che lo prende teneramente in braccio per risparmiargli la fatica delle scale; lui che intreccia un bizzarro menage a trois con Leopardi stesso e la bella Fanny Targioni Tozzetti (Anna Mouglalis); lui, ancora, che denudandosi diviene, in una breve quanto emblematica scena, oggetto dello sguardo indiscreto e rapito del poeta. La relazione omosessuale è palese leggendo l'appassionato epistolario di Leopardi, e l'amore tra il vate marchigiano e Ranieri avrebbe davvero meritato una trattazione meno censoria; in ogni caso, sono queste sparute allusioni a determinare il maggiore scarto del film rispetto agli arrugginiti binari percorsi in tutta la prima parte.
C'è del buono, dunque, in questo Martone. Certo, sopra ogni cosa c'è l'intento di raccontare il letterato, intento solo parzialmente centrato che grava come un sudario di carta ammuffita sul cuore pulsante del racconto. Ma sì, il cuore c'è, e questo riscatta l'intera operazione. Ce lo insegnano al liceo, le ultime poesie scritte da Leopardi sono Il tramonto della luna e La ginestra: concludere il film con la seconda senza citare la prima è un'omissione didattica, ma anche il gesto di coraggio di un regista che sceglie coscientemente il messaggio che vuole dare al pubblico: l'uomo è destinato a soffrire, ma non da solo. La solidarietà può salvarlo.
Martone non ha avuto il coraggio di approfondire la sessualità del più grande poeta italiano di tutti i tempi, di raccontare crudamente il disagio del suo corpo o di mostrare il lerciume dei suoi uomini e dei suoi luoghi, ma chiudere il biopic sul cantore della disperazione con una delle sue poesie più positive e reattive è comunque una presa di posizione. Posizione che, per un film che prometteva di non essere nulla di più che un'educata lezioncina di letteratura italiana, ci fa concludere che Il giovane favoloso, al di là dei suoi errori, ha qualcosa da dire.