Venezia 71 - Il giovane favoloso, la recensione

Il terzo film italiano in Concorso è Il giovane favoloso di Mario Martone. Un biopic su Giacomo Leopardi con Elio Germano in versione artista freak

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Sergio Rubini non c'è mai riuscito mentre Michele Mancini lo interpretò brevemente nel piccolo e sperimentale Stradia Pia del 1983.
Cinema italiano e Giacomo Leopardi: una relazione mai esplosa.

Arriva dunque come una sorta di liberazione nazionale la produzione Rai Cinema Il giovane favoloso di Mario Martone, ancora una volta immerso nell'800 italiano dopo Noi credevamo del 2010.

Il terzo film italiano in concorso dopo il mediocre Anime nere e lo squinternato Hungry Hearts è un biopic composto, senza fiammate ma interessante nell'idea che propone del nostro tormentato poeta.
Giacomo Leopardi era un prigioniero.
Prima della famiglia, poi del corpo e infine del secolo.
Tre cattività per il ragazzo che vagava nei boschetti di Recanati chiudendo gli occhi e fissando un orizzonte infinitamente lontano e irraggiungibile oltre quella siepe così difficile da scavalcare.
Bello l'inizio dove si ripropone la coppia Popolizio(padre)-Germano(figlio) di Mio fratello è figlio unico. E' la prima delle due coppie già felicemente sperimentate che tornano.

Papà  è un conte generoso, premuroso (lo aiuta a svuotare la vescica in un momento emozionante) ma rimane atterrito dalla potenza rivoluzionaria con cui il ragazzo comincia ad elaborare tutto lo scibile appreso durante gli studi matti e disperatissimi a un centimetro dalle pagine dei libri e con una postura da trance sciamanica simile a quella di mistici orientali ondulanti e bisbiglianti (Leopardi spesso si paragonerà ai visionari della lontana India).
Moderazione? Giacomo forse non la conoscerà mai.
Ma quel bambino che sembrava il più sano e forte dei tre fratelli (e anche il meno bravo in matematica) comincerà presto a soffrire di mali corporali, piegandosi sempre di più su stesso e tornando sempre più mogio alla dimora di famiglia dopo aver sfruttato ogni singola occasione per correre via dalle quattro mura domestiche anche solo per tradurre un nonnulla dall'ebraico per lo zio severo.
Popolizio e Germano insieme funzionano alla grande. Lo sapevamo già.

Esattamente come in Mio fratello è figlio unico, è un mentore esterno a strappare Germano-figlio dall'abbraccio limitato e limitante di Popolizio-padre.
L'intellettuale Pietro Giordani di un ottimo Valerio Binasco arriva come una tempesta, riempiendolo di complimenti (Giacomo piange come un bambino circondato da fratello e sorella per questo primo riconoscimento arrivato per lettera) e commettendo l'errore fatale di parlare con nonchalance di rivoluzione a tavola della famiglia Leopardi. Non sia mai!
La madre è una sfinge di cattolica rigidità (Giacomo la immaginerà in futuro come una Dea Natura gigantesca e fatta di terra in una visione terrificante del femmineo molto felliniana) mentre il padre fa capire subito che rivoluzione per lui è sinonimo di dissolutezza.
Ma quello che in paese chiamano "saccentuzzo" vuole spiccare il volo e grazie alla stima di Giordani lo ritroviamo, dopo una forse troppo violenta ellissi temporale di 10 anni, fare una sorta di vita da studente universitario fuori sede a Firenze con un amicone di nome Antonio Ranieri bello e gentile di un ottimo Michele Riondino.
Ecco completata la doppia coppia già vista. Riondino-Germano erano perfetti come sodali in Il passato è una terra straniera di Daniele Vicari.
Giacomo è sempre più gobbo e quando Germano fa lo sguardo allucinato... spiace dirlo ma il Marty Feldman di Frankenstein Junior è in agguato dietro l'angolo. Andava evitato il più possibile di fargli strabuzzare gli occhi.
A Firenze Ranieri rimorchia e Giacomo segue arrancando facendo il terzo incomodo. Da giovane favoloso a gobbo bavoso il passo è breve. Qualche passeggiata con il bel Ranieri e l'italiana che sembra francese Fanny (la interpreta la transalpina Mouglalis) per i boschi di Firenze e poi... il deserto freak. L'assenza in riva a un Arno lurido come una gigantesca pozzanghera grigia.
I salotti letterari sono paludi di invidie e gelosie e Giacomo si sente subito un outsider rancoroso. Ranieri gli vuole bene e la coppia è così strana e bella che avrebbe meritato un film tutto suo dove magari si sarebbero esplorate dimensioni omoerotiche qui solo accennate (Giacomo osserva con eccessiva curiosità il corpo nudo di Ranieri che esce dalla vasca) anche attraverso una buffa salita delle scale con Antonio che prende in braccio Giacomo come fossero due novelli sposini.

Diciamolo subito... laddove il film perde clamorosamente è nella sessualità. Un tabù per Martone o forse ancora di più per Rai Cinema. E perché mai questa autocensura? La prima serata di destinazione sul piccolo schermo ha frenato? Davvero vogliamo pensare che il rapporto, o non rapporto, tra il buon Giacomo e il suo corpo, e quello degli altri, non abbia influenzato minimamente la sua visione del mondo? Saremmo eccessivamente freudiani, ma la pensiamo così. La sfera erotica del nostro viene solo sfiorata quando non addirittura sviata a partire da un inizio di amore platonico etero da una finestra all'altra (lei è la donzelletta de Il sabato del villaggio?) per finire in un bordello di Napoli dove un breve shock che sembra citare La moglie del soldato di Jordan ci ripropone con feroce superficialità un'omosessualità più carente che latente.
Si doveva fare molto di più. Oppure, a questo punto, molto di meno. Meglio togliere tutto che suggerire maldestramente qualcosa.

In quel di Firenze si intuisce la crescita artistica e la cosa più bella del film sono le parole e i modi di dire di un'epoca che oggi è bello riascoltare come fosse la litania del passato racchiusa da una conchiglia di mare: saccentuzzo, indicibilmente, onnipossente, "contino mio" (come lo apostrofa simpaticamente Giordani), canaglia, amicissimo, "lazzaroni e pulcinelli" (per Giacomo i napoletani sono così), infelicissimo.

Questo è il momento in cui la seconda prigione, quella del corpo, fa sentire tutte le sue ruvide catene sul corpo stesso del film.
Ed Elio Germano non riesce ad andare oltre la dimensione freak rosicone delle altrui gioie fisiche.
La terza prigione libera definitivamente il film dandogli il suo senso più compiuto: Leopardi è incarcerato dal suo secolo, un'epoca arrogante, boriosa e dipendente da una visione del futuro cui Giacomo dedicherà il sarcastici passaggio "le magnifiche sorti e progressive" de La ginestra.
In poche parole: il nostro ragazzo è un iper pessimista cosmico che il cosmo finirà per osservare atterrito da una terrazza di Torre del Greco.
Tutti attorno a lui sono su di giri, gretti e rampanti: politicamente, economicamente, sessualmente (Ranieri) e religiosamente.
Giacomo nostro, invece, è tendente al sarcasmo, nichilismo e quando è proprio in buona... fervido scetticismo.
Questo poteva essere anch'esso tutto un film singolo. E anche parecchio interessante.

"Non riesco a immaginare masse felici composte da individui infelici" lo sentiremo dire. Woody Allen, nel '900, se ne sarebbe portate a casa una dozzina con una battuta del genere. Povero Giacomo. Nel '900, dentro l'era dell'arte pop industriale, avrebbe avuto donne (o uomini o entrambi), droga e un delirio rock ai suoi piedi per questa bruttezza così punk e questo humour così all'avanguardia. E' la parte più bella della pellicola. Quella in cui capisci compiutamente la solitudine del gobbo di notre tristesse e lo vorresti abbracciare e portare con noi in un'epoca in cui tutti e tutte avrebbero voluto vezzeggiarlo e ridere delle sue freddure niente male. E forse sarebbe stato un pizzico più felice perché, in un momento di libertà dalle difese dell'intelletto, lo sentiremo affermare stremato: "Io ho bisogno di amore".

Germano non sfonda. L'eloquio è neutro e per un maestro della fonetica come lui... sembra riduttivo.
La postura, ripetiamo, assume a volte un segno eccessivamente grottesco che non aiuta a vedere Giacomo oltre la sua apparenza sempre più deforme.
A Napoli lo vedremo urlare in un caffè: "Le mie opinioni non hanno niente a che fare con le mie condizioni personali!".
Ma, a volte, il film non sembra affatto pensarla in questo modo.
Peccato, perché la pellicola è ricca di spunti e riflessioni più che interessanti sul ruolo dell'artista nel suo tempo.
E nel suo corpo.

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