Venezia 71 - Arance e martello, al recensione

Con Arance e martello Zoro approda in tv cercando di mescolare il linguaggio che ha sviluppato in rete e online con il cinema che ama

Critico e giornalista cinematografico


Condividi
Da sempre Zoro, ovvero Diego Bianchi, lavora sull'audiovisivo per forzare il linguaggio tradizionale del reportage e raccontare la realtà in maniera personale. Ha cominciato online, poi ha trasferito il suo stile alla televisione (evolvendolo nel tempo) e adesso gira un film cercando di integrare il linguaggio canonico del cinema al proprio.
Il canovaccio è dichiaratamente Fa' la cosa giusta, che Bianchi prende fedelmente e adatta al contesto italiano (gli extracomunitari, gli italiani e gli italiani di nuova generazione, la politica invece che il razzismo), ne segue tutta la struttura con una certa coerenza (monologhi inclusi) e una buona capacità di adattare, tradendo solo il pessimismo e la spietata durezza del finale.

E forse è proprio questo rapporto con Fa' la cosa giusta la parte migliore del film, perchè Arance e martello ne traduce bene l'estetica, ne segue quell'atteggiamento da black culture molto attaccato ai corpi e smaliziato riguardo alla loro esibizione o alla carica sessuale, dimostrando in sostanza quanto quella maniera di raccontare le tensioni sociali sia ancora buono e talmente universale da riuscire a parlare bene dell'incomunicabilità nella società moderna, a prescindere da luogo e anno.
La parte peggiore invece è lo svolgimento della trama che dopo un buon inizio nella seconda metà comincia ad affannare, l'intreccio non si svolge con fluidità e anche i dialoghi (sebbene contrappuntati dal solito umorismo di Diego Bianchi, molto romano e molto naturalistico) non hanno lo sprint che servirebbe.

Insomma lentamente Arance e martello muore, non trova più un ruolo preciso e ficcante a tutti i personaggi (emblematico l'intreccio risolto e narrato abbastanza male che porta all'incendio) mancando così di risolvere il film, anche magari lasciando tutto in sospeso ma comunque portandolo ad un finale.
Riuscendo a trovare un ruolo per se stesso, cioè per il personaggio mediatico che ha costruito negli anni, Diego Bianchi avrebbe anche la possibilità di lavorare con più pregnanza sullo stile che ha sviluppato, purtroppo anche qui l'idea è forte ma manca un po' d'audacia e così non si raccoglie molto alla fine, la videocamera tenuta dal protagonista è un punto di vista come un altro e non uno differente, non leva e non mette.
Peccato, perchè se c'è una cosa che il film azzecca in pieno è il modo migliore di fotografare Roma, quelle zone e quel calore, che pare poco invece era metà del lavoro.

Continua a leggere su BadTaste