Venezia 71 - Anime nere, la recensione
Storie di mafia trattate con gran rispetto del territorio (dialetto sottotitolato, ambienti reali e presenti, fedeltà al reale) che dimentica totalmente le sue premesse e il suo genere d'appartenenza
Il film di Munzi racconta di mafia calabrese. C'è una famiglia composta da tre fratelli, ognuno con la propria famiglia: uno affarista vive al nord, uno è il rampante capetto molto in contatto con la gente (rimasto in loco ma moderno nello stile, quindi burino ed eccessivo) e l'ultimo è quasi un pastore, si è ritirato nei monti. A scatenare il film è l'inizio di una faida, il riemergere di vecchi contrasti che scatenano tensioni inespresse e latenti all'interno della famiglia. La guerra è fuori ma soprattutto dentro.
In un territorio molto presente e significativo (l'Aspromonte), fotografato con colori plumbei, sembra che le esigenze di recitazione sostituiscano quelle di trama e che il rapporto con il paesaggio debba colmare il gap. Ci sono più scene di personaggi da soli nell'inquadratura che si disperano sbattendo i pugni a terra o di protagonisti che in macchina guardano il mare pensosi (vi ricordo che si tratta di ignoranti mafiosi della calabria, non di poeti) che dialoghi fulminanti, scambi di battute potenti o tutto quel che solitamente è usato nei film di mafia per rendere le "anime nere". Ci sono più dettagli di piccoli riti pagani sulla cima dei monti e momenti di canti e balli popolari che sparatorie dure o minacce o ancora di puro terrore dell'impotente contro il potente.