Venezia 70: Under the Skin, la recensione

Fantascienza d'autore per il nuovo, controverso film di Jonathan Glazer, accolto da fischi alla prima ufficiale al Festival di Venezia...

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Nel 2008, Abbas Kiarostami presentò a Venezia il suo Shirin. Centoquattordici donne che si godono uno spettacolo teatrale, del quale possiamo solo udire le battute. Novanta e passa minuti di primi piani di attrici iraniane. In Sala Grande, a dispetto della presenza del Maestro Kiarostami, un tombale silenzio rotto di tanto in tanto dal russare di qualche povero spettatore e dal frequente sospiro estenuato di buona parte degli astanti. Fine del film, si accendono le luci: il mio vicino di posto si sveglia e scatta in piedi, applaudendo come se ne valesse della sua stessa vita e gridando al capolavoro in barba a ogni senso di decenza.

Quest’aneddoto fa sgranare gli occhi se si pensa all’accoglienza disastrosa riservata ieri sera al nuovo film di Jonathan Glazer, Under the skin, con una Scarlett Johansson bruna e smarrita nei panni di un’aliena mangia uomini. I fischi hanno sommerso regista e interprete, e c’è chi riporta addirittura uno scoppio di pianto da parte della graziosa attrice americana. È raro, molto raro, che in Sala Grande il pubblico pagante si sbilanci a fischiare un film davanti all’autore stesso. Anche dopo aver dormito per tre quarti della proiezione, evidentemente.

Glazer è stato messo in croce per un film che, a dirla tutta, è il titolo più “da Festival” visto finora tra quelli in concorso, con tutta la pretenziosità che questa dicitura implica.

Tratto dall’omonimo romanzo dell’olandese Michel Faber, Under the skin si prende parecchie libertà nei confronti del testo originario, spogliandolo della sua ironia e ammantandolo di una pesante cappa di inquietudine. La bella aliena interpretata dalla Johansson risulta poi agire per motivi totalmente oscuri, che invece nel libro vengono spiegati per filo e per segno. Tuttavia, questa narrazione nebulosa ed ellittica non disturba e conferisce invece al film un fascino sospeso e una tensione straniante molto originale.

Nella tediosa mediocrità dei titoli presentati quest’anno, risulta paradossale che un film come Under the skin sia stato accolto così spietatamente. Verrebbe da chiedersi se si tratti del medesimo Festival dove, appena un anno fa, Kim Ki-duk conquistava il Leone d’Oro con l’indigeribile Pietas, o se piuttosto non ci si sia tutti trasferiti ad una sorta di sagra della porchetta dove ogni stimolo diverso, ogni sperimentalismo viene accolto con versacci da taverna.

Si potrebbe aprire un lungo dibattito sull’adeguatezza o meno dei fischi alla fine delle proiezioni festivaliere, ma per il momento è meglio limitarsi a dire: pur ammettendo la liceità dei fischi, Under the skin non li meritava affatto. Non li meritava per la regia sicura e esteticamente carismatica, né per la performance della protagonista, perfettamente in parte in un ruolo non facile. Non li meritava per il raffinato lavoro sul sonoro, uno degli elementi più destabilizzanti dell’intera opera, spesso al limite tra musica e rumore. Non li meritava perché ha avuto coraggio e, al di là delle opinabili omissioni della fumosa sceneggiatura, se il coraggio non lo si apprezza in una competizione come questa, allora allo spocchioso Festival di Venezia tocca davvero un bell’esame di coscienza.

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