Venezia 70: Under the Skin, la recensione
Fantascienza d'autore per il nuovo, controverso film di Jonathan Glazer, accolto da fischi alla prima ufficiale al Festival di Venezia...
Nel 2008, Abbas Kiarostami presentò a Venezia il suo Shirin. Centoquattordici donne che si godono uno spettacolo teatrale, del quale possiamo solo udire le battute. Novanta e passa minuti di primi piani di attrici iraniane. In Sala Grande, a dispetto della presenza del Maestro Kiarostami, un tombale silenzio rotto di tanto in tanto dal russare di qualche povero spettatore e dal frequente sospiro estenuato di buona parte degli astanti. Fine del film, si accendono le luci: il mio vicino di posto si sveglia e scatta in piedi, applaudendo come se ne valesse della sua stessa vita e gridando al capolavoro in barba a ogni senso di decenza.
Glazer è stato messo in croce per un film che, a dirla tutta, è il titolo più “da Festival” visto finora tra quelli in concorso, con tutta la pretenziosità che questa dicitura implica.
Nella tediosa mediocrità dei titoli presentati quest’anno, risulta paradossale che un film come Under the skin sia stato accolto così spietatamente. Verrebbe da chiedersi se si tratti del medesimo Festival dove, appena un anno fa, Kim Ki-duk conquistava il Leone d’Oro con l’indigeribile Pietas, o se piuttosto non ci si sia tutti trasferiti ad una sorta di sagra della porchetta dove ogni stimolo diverso, ogni sperimentalismo viene accolto con versacci da taverna.
Si potrebbe aprire un lungo dibattito sull’adeguatezza o meno dei fischi alla fine delle proiezioni festivaliere, ma per il momento è meglio limitarsi a dire: pur ammettendo la liceità dei fischi, Under the skin non li meritava affatto. Non li meritava per la regia sicura e esteticamente carismatica, né per la performance della protagonista, perfettamente in parte in un ruolo non facile. Non li meritava per il raffinato lavoro sul sonoro, uno degli elementi più destabilizzanti dell’intera opera, spesso al limite tra musica e rumore. Non li meritava perché ha avuto coraggio e, al di là delle opinabili omissioni della fumosa sceneggiatura, se il coraggio non lo si apprezza in una competizione come questa, allora allo spocchioso Festival di Venezia tocca davvero un bell’esame di coscienza.