Venezia 70: Stray Dogs, la recensione

Uno dei film più difficili audaci e rischiosi del concorso forse è uno dei migliori. Tsai Ming-Liang esagera e va alla radice di uno stile antinarrativo e anticommerciale per raccontare lo schifo umano...

Critico e giornalista cinematografico


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Non è per niente semplice l'ultimo film di Tsai Ming-Liang (l'ultimo sul serio perchè il regista ha detto che smette di farli), non semplice da seguire nè da comprendere, eppure misteriosamente efficace.
C'è un uomo che si guadagna da vivere reggendo cartelli, un lavoro infame sotto un tempo infame, vive con due figli ai limiti del vagabondaggio, si lavano in bagni pubblici e dormono in una casa abbandonata. Di giorno i bambini ciondolano in un supermercato dove entrano in contatto con una donna che si unisce al nucleo e in una notte di pioggia in riva al fiume capisce che il padre è inaffidabile e sembra voler prendere le redini di tutto. Non si diranno niente i due ma dopo aver fissato un dipinto su una parete in silenzio per diversi minuti si separeranno senza conciliarsi.

Stray Dogs è fatto di lunghi piani fissi, sequenze che durano diversi minuti riprendendo lo scorrere del tempo su un volto o semplicemente su un'azione, senza particolari eventi. Si contemplano gli uomini nella loro quotidianità che è fatta di niente. In queste immagini straordinarie, ognuna una perla, lo sguardo esplora, indaga e infine si perde. Come le migliori fotografie questi quadretti di Tsai Ming-Liang possono essere esplorati per minuti e minuti mentre lavorano come un martello nel cervello, assecondando la poetica di desolazione urbana di Taipei.

E' quindi una costruzione lentissima e fatta di immagini scevre (quasi tutte) da azioni quella che porta il film al piano fisso di circa 10 minuti del finale, un esercizio di pazienza e contemplazione dalla straordinaria efficacia, che si porta dietro le umiliazioni dell'ultima parte di film e la disperazione umana del protagonista.

Lo vediamo cantare controvento sotto la pioggia con le lacrime agli occhi, lo vediamo svegliarsi di notte e notare nel letto un cavolo con dipinto un sorriso e due occhi messo dai figli al loro posto e prima dilaniarlo poi mangiarlo con foga e infine, quest'uomo derelitto, contempla un dipinto sul muro per diversi minuti e noi contempliamo lui e la donna che gli sta davanti guardarlo.

Non è una visione semplice nè buona per tutti i palati e i gusti, questo è chiaro, ma nondimeno non si può far finta di niente di fronte alla maniera in cui Tsai Ming-Liang calamita lo sguardo per un periodo interminabile sull'immagine di due attori immobili che guardano qualcosa fuori dallo schermo. Così tanto coinvolgente che quando arriverà il primo movimento avrà un senso molto più profondo di quello che le azioni solitamente hanno. Non si può far finta di niente di fronte a questo film totalmente anti-commerciale (dura circa 140 minuti), radicale e violento nel suo non scendere a compromessi con nulla.

Dovesse vincere questo festival di Venezia alimenterebbe tutti i soliti pregiudizi contro i film "da critici" ma non sarebbe una scelta insensata.

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