Venezia 70: Sacro GRA, la recensione

Il secondo documentario in concorso a Venezia è un'opera in grado di scardinare tutte le convenzioni del suo genere che racconta un luogo a partire dall'umanità e l'umanità a partire dal cinema...

Critico e giornalista cinematografico


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A Roma ci sono le mura aureliane (o quel che resta) che a un certo punto delimitavano i confini della città, ci sono le mura vaticane (o quel che resta) che una volta delimitavano il Vaticano e c'è il raccordo anulare che oggi più o meno delimita il centro urbano. Le mura servivano a non far entrare o a controllare chi entra e chi esce, il raccordo serve all'esatto contrario, far circolare e agevolare l'ingresso. A margine del raccordo si muove un'umanità incredibile e Gianfranco Rosi per raccontarne alcune parti ha passato due anni a girarlo raccogliendo ore di materiale accuratamente selezionato ed editato per realizzare Sacro GRA, documentario umano sul paesaggio urbano capace di spiazzare e superare qualsiasi cosa pensiamo di sapere su cosa sia, come funzioni e che funzione abbia un documentario. Un punto di riferimento per tutto il cinema da cui in futuro sarà difficile prescindere.

Le storie seguite da Rosi si intrecciano e procedono in parallelo, i personaggi vengono descritti saltando continuamente dall'uno all'altro e l'impressione è che il regista, del vasto materiale a disposizione abbia selezionato i segmenti più assurdi e incredibili. Per questo si ride molto in Sacro GRA, si ride di stupore di fronte all'assurdo umano, di fronte al grottesco e l'incredibile. Eppure è anche evidente che ciò che vediamo somiglia in maniera impressionante al cinema di finzione. Gli uomini che Rosi ha trovato e ripreso sembrano scritti da una grande penna e alle volte si dicono cose che paiono sceneggiate ad arte (ma non lo sono). Alla stessa maniera di Matteo Garrone il regista di Sacro GRA riprende l'ombra del cinema sulla realtà, solo che non lo fa con il beneficio di una sceneggiatura.

E' allora la mostruosa capacità di Gianfranco Rosi di scegliere il punto di vista più adatto per ogni inquadratura a compiere questo passo, cioè a riuscire a guardare la realtà come fosse cinema. Questo è particolarmente evidente nel segmento sul nobile piemontese che vive in casa con la figlia, ripreso con un'incredibile inquadratura da fuori la finestra, un vero colpo da maestro a metà tra la videocamera a circuito chiuso e il cinema d'autore (e il ripetere tale inquadratura per gli appartamenti limitrofi non fa che enfatizzare questo senso). La finestra inquadra la scena come un frame e i personaggi sembrano sempre nelle stesse posizioni mentre dicono e fanno cose diverse.

Per ogni storia Rosi trova il modo di generare mito, di trovare il personaggio nella persona (alle volte, va detto, che gli è bastato poco come per il signorotto che vive in un castello in cui si girano fotoromanzi) e lasciare che la loro quotidianità travalichi i consueti confini del documentario. Alla fine, come già in Below sea level, non è l'ambiente del titolo il vero oggetto del guardare ma l'umanità che si agita e come essa sia in grado di ridefinire quei luoghi.

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