Venezia 70: Parkland, la recensione

L'assassinio Kennedy narrato dai personaggi di contorno: questa l'idea al centro del fiacco Parkland di Peter Landesman, in concorso al Festival di Venezia 2013...

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Che al pubblico americano possa, sulla carta, interessare un film come Parkland non c’è alcun dubbio. Scegliendo di raccontare, attraverso gli occhi delle persone comuni, i giorni che seguirono l’attentato a John Fitzgerald Kennedy nel Novembre del ’63, il regista Peter Landesman tocca corde già fatte efficacemente vibrare da Oliver Stone con il suo JFK – Un caso ancora aperto.

Insomma, una scommessa che poteva essere già vinta in partenza. Se poi ci aggiungiamo un cast di tutto rispetto, tra cui spiccano i nomi di Paul Giamatti e Marcia Gay Harden nonché Zac Efron finalmente prossimo allo sviluppo e slegato da ruoli adolescenziali fighetti, la riuscita del film risulta essere praticamente scontata.
 

Peccato che a Landesman piaccia davvero vincere facile, e non si preoccupi minimamente di elevare la sua opera quel tanto che basti a distinguerla da un mero agglomerato di filmati di repertorio e personaggi che, a cinque minuti dall’assassinio di Kennedy, sembrano già possedere la chiara prospettiva dell’evoluzione del mondo nei successivi quarant’anni. Cose perdonabili in un film per la tv con intenti biecamente didascalici, non certo in una pellicola in concorso ad un Festival che gode ancora di un certo prestigio internazionale.

Parkland non è brutto, per carità. Non nell’accezione più comune del termine, almeno. La bruttezza sarebbe stato un difetto ampiamente assolvibile. Il peccato mortale di Parkland è piuttosto la noia, quella noia che ti si attacca alle palpebre e dilata novantadue minuti fino all’inverosimile, snocciolando fatti senza una chiara idea poetica né un occhio registico abbastanza agile dal supportare questo macroscopico spiegone.

Il coinvolgimento emotivo è pari a quello di una televendita di pentole, e la tragedia dell’omicidio Kennedy scivola letteralmente addosso allo spettatore, che rischia di ritrovarsi a simpatizzare con l’unico personaggio in antitesi a questa immotivata – narrativamente parlando – valle di lacrime, il coroner che commenta il dolore della first lady dicendo: “Ho a che fare con le vedove ogni santo giorno”.

La colpa di Landesman, tuttavia, scompare immediatamente dinnanzi a quella ben più grave dei selezionatori del Festival: di fronte a cotanta sciatta superficialità e smidollato evenemenzialismo, viene da chiedersi se la selezione sia avvenuta pescando a caso titoli da un’urna in pieno stile lotteria. E guardando Parkland, l’unico pensiero sensato tra uno sbadiglio e l’altro è: ben vengano i film brutti, purché dimostrino almeno nelle intenzioni la necessità e l’urgenza di un qualsivoglia messaggio.

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