Venezia 70: Locke, la recensione
Fuori concorso al Festival di Venezia, il secondo film di Steven Knight vede Tom Hardy protagonista assoluto di un viaggio in macchina che diventa bivio esistenziale...
In un Festival costellato di protagonisti fragili e quasi mai vincenti, si staglia il protagonista del piccolo grande Locke di Steven Knight. Ivan Locke è un marito e padre felice, nonché responsabile rispettato e diligente in un'impresa di costruzioni. O almeno, è tutto questo fino a quando non sale in macchina, alla vigilia del giorno più importante della sua intera carriera, per recarsi a casa dove la moglie e i suoi due bambini attendono trepidanti di godersi insieme una partita di calcio assieme a lui.
Breve e lineare, Locke è un film assolutamente perfetto. La solida sceneggiatura usa metafore semplici e dirette, e l'alternanza dei vari personaggi invisibili che costellano il viaggio di Locke da Birmingham a Londra è gestita magistralmente. Non stupisce, dato che il passato sceneggiatoriale di Steven Knight può vantare script come Piccoli affari sporchi diretto da Frears e La Promessa dell'Assassino diretto da Cronenberg. Ma è la scelta registica a risultare l'elemento più estremo: Locke è stato infatti girato in tempo reale, senza stacchi da parte della macchina da presa - e presumibile esaurimento nervoso da parte del montatore.
Un magnifico affresco notturno e un ritratto umano esemplare, che mescola in modo sublime la cristallina moralità di Ivan e le ombre che oscurano il suo passato, spingendolo ad un dolente soliloquio-dialogo con lo spettro del padre, la cui assenza corporea nel veicolo è specchio straziato dell'assenza di un'intera vita.