Venezia 70: Child of God, la recensione

In concorso al Festival di Venezia con Child of God, James Franco conferma un'evoluzione registica ma non centra del tutto il bersaglio...

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La solitudine e l’isolamento si stanno confermando uno dei temi più caldi di questa edizione del Festival di Venezia, grazie anche al nuovo film di James Franco Child of God, tratto dall’omonimo romanzo scritto nel 1974 da Cormac McCarthy (già autore di Non è un paese per vecchi e The road). Una storia dura come una pietra, parabola di un giovane emarginato, Lester Ballard, privato di ogni cosa – dagli affetti domestici alla casa. Rimasto completamente solo, l’uomo intraprende un tragico percorso di abbrutimento che lo porterà a sprofondare sempre più in basso, fino all’estremo limite di abiezione concesso ad un essere umano.

La derivazione letteraria del film emerge sin dai primi fotogrammi: alla voice over cara a Franco – l’esempio dello scandaloso The Broken Tower è abbastanza emblematico in tal senso – si aggiungono anche cartelli neri con alcuni brevi estratti del romanzo originario. L’espediente è limitato a pochi momenti nel corso della vicenda, e lo stile registico di Franco dimostra una maturità e un rigore assenti dai suoi precedenti lavori, spesso scivolati nell’autocompiacimento estetico. Da questo punto di vista, Child of God segna indubbiamente un’evoluzione di Franco dietro la macchina da presa, finalmente libero dagli schematismi e dalle pesantezze che lo ancoravano non sempre felicemente alla sua parallela carriera di artista visivo.

Chiariamo: Child of God non è pienamente riuscito. Dispiace perché, più di tutti gli altri film finora mostrati in concorso a Venezia, esso si delinea chiaramente come un’ottima occasione sprecata. Sebbene la vicenda umana di Lester sia, sulla carta, troppo cruda per lasciare indifferenti, al film non si può non rimproverare una certa pesantezza che influisce negativamente sul coinvolgimento dello spettatore. Inoltre, l’evoluzione-involuzione del protagonista risulta poco chiara in alcuni passaggi chiave, specialmente nella seconda metà del film.

Al di là dei suoi difetti, Child of God è però il primo, vero film “da Festival” tra le opere in concorso finora mostrate, quantomeno per i rischi che si prende nel raccontare, attraverso immagini talvolta ripugnanti, una tragedia scomoda e reietta. Dopo la solitudine salvifica di Tracks (e, fuori concorso, dello splendido Gravity), l’ostracismo civile di cui Lester Ballard risulta una faccia della medaglia quantomeno inconsueta e indagata con apprezzabile schiettezza in tutti i suoi gradini, figurati e non: una discesa agli inferi che passa attraverso le fiamme, concretizzando il rifiuto da parte del mondo dei vivi nella ricerca di contatto umano con i morti. E anche scenograficamente, Franco divide in tappe precise questa “catastrofe”, questo viaggio negli abissi, dal capanno della tenuta fino ai terrosi cunicoli sotterranei delle scene finali.

Encomiabile, ad ogni modo, la prova attoriale del giovane Scott Haze, che si muove con dinoccolata sapienza nei suggestivi paesaggi del Tennessee, teatro del dramma di Ballard. La sua capacità mimica lo muta in fiera e giunge a stravolgergli i lineamenti in un climax sempre più intenso, veicolando il messaggio che Franco vuol far arrivare: un uomo abbandonato a se stesso può arrivare a dimenticare la propria umanità, raggiungendo e superando la violenza delle belve. Ed è innegabile che Child of God sia pienamente riuscito a comunicare questo messaggio, con la rapida intensità di un pugno nello stomaco.

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