Venezia 69: Spring Breakers, la recensione

In Spring Breakers il regista Harmony Korine racconta egregiamente la storia di quattro ragazze in bikini pronte a tutte pur di divertirsi...

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I grandi raduni sulla spiaggia durante le vacanze di primavera sono un must negli Stati Uniti, almeno per tutti quelli che se li possono permettere. Sono giorni di vero devasto fisico, feste, balli, alcohol, sesso, droga, bravate varie e una ricerca ossessiva di divertimento che quasi annulla le singole individualità dei partecipanti per farne un unica grande massa indistinta di ragazzine gridanti e sorridenti. Il fenomeno è preoccupante nella sua portata enon trova nessuna forma di costrasto culturale in grado di arginarla o limitarne almeno gli eccessi.

Prima di Spring Breakers il regista Harmony Korine, grande amico sia di Larry Clarke che di Werner Herzog, aveva sempre girato o partecipato in veste di sceneggiatore, a film “fastidiosi” tanto nei temi quanto nella forma, da Kids a Mister Lonely, da Gummo a Ken Park.

Quella sua ricerca di storie sempre ai limiti viene confermato anche da Spring Breakers, che segue un gruppo di ragazzine poco più che adolescenti pronte a tutto pur di godersi quei giorni di solo party per cui da tempo pensano di aver messo denaro a sufficienza. Purtroppo non è così, ecco quindi prima una rapina e poi, pur di continuare “il sogno”, compagne di avventure di un piccolo gangster di città. C’è chi, tra di loro, si tira subito indietro, chi ha bisogno di assistere ad una sparatoria per capire che non si scherza con il fuoco e chi invece rimane salda su quei binari così estremi perchè così “sta trovando sé stessa”.

Korine racconta il tutto allestendo un contesto così grottesco che ogni immagine tradisce il suo significato apparente per simboleggiarne invece il significato opposto, una fiera di contrasti più o meno ironici e paradossali che stimola continuamente lo spettatore, chiamato in causa per fare da filtro al tutto. Le immagini iper-patinate, vera e propria novità per il cinema di Korine, vengono replicate continuamente dal montaggio  proprio per creare quella sorta di vuoto e disgusto che ad una prima visione non riescono a trasmettere, così cariche di una vitalità che quasi potrebbe fare invidia se non ci si ragionasse un poco sopra.

La scelta stessa di utilizzare attrici uscite da serial e contesti televisivi più che mai ovattati e politically correct come la Vanessa Hudgens di High School Musical o la Selena Gomez di tante produzioni Disney è solo il più palese degli indizzi che il regista lascia per far capire a tutti quale sia l’approccio con cui vedere il suo film. Il sesso, tanto evocato e mimato, arriva solo gradualmente, quasi a sottolineare come alla fin fine quel diffuso puritanesimo di base che si respira in alcune zone e contesti sociali Usa riesca comunque a limitare alcuni aspetti della questione, anche se più che elisir, sembra una delle cause di altri tipi di frustrazioni.

Messa in cantiere la prima scena lesbo della Hudgens assieme a Ashley Benson (la più bella del gruppo) e uno straordinario James Franco (il fotogramma di lui che sorridente salta sul materasso è tra le cose migliori del film), c’è poi da dire che quando poi c’è da fare sul serio Korine dimostra comunque di sapere girare e dirigere le sue attrici in maniera egregia. I suoi picchi sono il piano sequenza della prima rapina, il modo in cui poco dopo le sue giovani interpreti rivivono l’assalto visto stavolta però dall’interno e il tramonto con pistole sulle note di Britney Sperars.

Piccola nota a margine: nel modo di raccontare la propria storia, lavorando più sulle associazioni di immagini che su dei veri e propri blocchi narrativi con tanto di voice over a far da raccordo al tutto, ricorda un po’ To The Wonder di Terrence Malick. Entrambi sono in concorso al Festival di Venezia.

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