Venezia 69: The Reluctant Fundamentalist, la recensione
Il terreno sui cui si muove Mira Nair è senza dubbio minato e ambizioso, ma detto questo The Reluctant Fundamentalist rimane comunque una pellicola brutta...
L’origine è letteraria, ovvero l’omonimo best seller di Mohsin Hamid arrivato anche ad essere segnalato all’interno della periodica top ten dei migliori libri in circolazione stilata dal New York Times. Due uomini, un giornalista americano e un professore universitario pakistano, si trovano davanti ad un tavolo di Lahore dopo il rapimento di un accademico statunitense da parte di una cellula di terroristi. Il professore pakistano ha a che fare con il sequestro o è completamente estraneo all’accaduto? E il giornalista ha organizzato l’incontro solo perché vuole pubblicare l’intervista o anche lui nasconde un segreto? Il faccia a faccia darà modo ad entrambi di scoprire le proprie carte e capire chi è chi e perché si trova in quella posizione. Il racconto per entrambi però parte da lontano: l’undici settembre e tutto ciò che ne è conseguito...
Il terreno sui cui si muovono Mira Nair e il suo team di sceneggiatori è senza dubbio minato e al contempo ambizioso. Proporre le due facce di quella che sembra una medaglia non è facile, soprattutto se si parla di un argomento così pieno di nervi scoperti. L’ambizione è alta e apprezzabile, ma detto questo The Reluctant Fundamentalist rimane comunque una pellicola brutta.
A dare più credibilità al tutto non aiutano le performance di Riz Ahmed (golden boy del cinema inglese di questi ultimi anni) e di una Kate Hudson invecchiata veramente male. Purtroppo la Nair, a parte qualche film (Monsoon Wedding e un po’ The Namesake) è ormai quasi garanzia di film poco interessanti. Era proprio necessario darle l’apertura del rinnovato Festival di Venezia?