Venezia 69: Pietà, la recensione

Proiettato al Festival di Venezia Pieta: Kim ki-Duk ritorna ai suoi fasti e firma uno dei suoi più bei film...

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Dopo la depressione e due film “estremi” come Arirang e Amen, ambedue realizzati con una piccola videocamera digitale senza troupe o aiuto in postproduzione (nel primo è anche unico attore, nel secondo c’è anche un’attrce), Kim ki-Duk torna a dirigere in maniera “tradizionale”, anche se quando si parla di lui di convenzionale c’è poco e nulla.

Basta leggere la trama di Pietà (titolo e immagine di locandina sono ispirate dall’opera di Michelangelo) per rendersene conto: il picchiatore di uno strozzino di una città industriale coreana è noto per la sua freddezza davanti a qualsiasi tipo di storia o situazione. Ha storpiato tanti artigiani della comunità per far sì che intaschino i premi assicurativi e ripaghino il prestito e sembra non provare nessun amore per nessuno non ha nessuna persona a cui tenga. Le cose cambiano improvvisamente quando una donna comincia a seguirlo ovunque lui vada. Dichiara di essere la madre che lo ha abbandonato appena nato e come tale comincia a prendersi cura di lui, nonostante lui inizialmente non le creda...

Uno dei migliori film passati alla 69esima edizione del festival di Venezia è un dramma che non si pone nessun problema ad utilizzare a superare alcuni limiti che si potrebbero definire “di buon gusto” per raccontare la storia di un rapporto più che mai morboso. Ecco quindi il cannibalismo, la masturbazione, l’automenomazione, lo stupro e via dicendo. Il senso di colpa e la vendetta pervadono tutto il film secondo le più varie ed artciolate declinazioni e così anche ciò che non si giustificherebbe altrove, diventa qui giusto e funzionale alla storia.

Per quanto poi le atmosfere siano cupe, Kim ki-Duk riesce comunque ad alleggerire il tutto con alcune delle sue solite trovate di pura comicità/sarcasmo (l’accoltellato che prende il taxi vince su tutte). I vari elementi narrativi si bilanciano alla perfezione riuscendo anche in questo caso a viaggiare su quella zona grigia dell’immedesimazione che avvicina e allontana lo spettatore ai protagonisti senza mai fargli capire dove si stia andando, cosa sia giusto e cosa sia sbagliato. Il suo è un cinema pieno di immagini non solo spesso straordinariamente belle esteticamente, ma anche poetiche nel più profondo della parola, capaci quindi sia di dire qualcosa narrativamente che di ergersi ad emblemi di un’intera gamma di emozioni e sentimenti. Del resto è uno dei cineasti più importanti della nostra epoca. Bentornato tra noi Kim ki-Duk.

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