Venezia 69: The Master, la recensione [1]

The Master, uno dei film più attesi del Festival di Venezia, segna un passo falso nella filmografia dell'apprezzato Paul Thomas Anderson...

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Era il film più atteso del festival. Ed è stato una delusione. Non una delusione totale visto che parliamo di un regista, Paul Thomas Anderson, in grado di dirigere e scrivere come pochi cineasti contemporanei, ma sicuramente parziale. In pochi, forse nessuno, scriveranno che è un capolavoro, diversamente da quanto accadde cinque anni fa con Il Petroliere.

The Master racconta la storia di un rapporto a due tra un reduce di guerra che sta faticando a reintegrarsi nella società, perso tra alcol e problemi mentali, e un aspirante santone che ha già fatto alcuni proseliti ma che ancora deve affermarsi completamente. Nessuno è pronto ad accogliere ed aiutare il primo, mentre il secondo è tanto incuriosito quando desideroso di una cavia per i suoi espirmenti di ipnosi. E’ lui il Master del titolo, quel maestro che parla di vite passate e ora rivissute che tanto ricordano Scientology. Il personaggio interpretato da Philip Seymour Hoffman non si chiama L. Ron Hubbard, ma ne ricalca sia l’atteggiamento verso i propri adepti che alcuni dati biografici. Insomma, nessun collegamento ufficiale, ma è impossibile non pensare a lui guardando la solita grande performance di Hoffman.

Il grande problema di The Master è che gira a vuoto. E’ chiaro che al centro del film ci sia l’ambizione di raccontare, partendo dal caso singolo, il come si possa manipolare una persona attraverso la creazione di falsi miti e illusioni, ma quello che normalmente è un espediente narrativo in grado di funzionare prende qui così tante derive e parentesi che finisce con il perdere qualsiasi forza comunicativa. 

I due personaggi di Anderson sono troppo imprevedibili e imperscrutabili per potere essere compresi. Da una parte così si evitano banalità e cose già viste, ma dall’altra non si capisce bene perché si dovrebbe essere interessati a tutto questo. Anche l’occhio di Anderson, inizialmente molto ispirato (la prima parte del film è stilisticamente perfetta) perde gradualmente di forza finendo con il non regalare alcuna immagine degna di un particolare ricordo, neanche nel finale. Mentre in Il petroliere il rapporto tra i due personaggi terminava con un’esplosione di violenza forse immotivata, ma che comunque tirava le fila di una suspense accumulata per tutto il resto del film, qui l’epilogo è più moscio che mai, segno che non si è riusciti a costruire niente di veramente interessante nelle due ore precedenti.

Rimangono le grandi performance degli attori, il già citato Hoffman e soprattutto Joaquin Phoenix, e alcuni movimenti di macchina e inquadrature senza dubbio affascinanti, ma mai eccezionali. Fosse stato un altro regista forse il giudizio sarebbe stato diverso. Visto che si parla di Andeson invece non si può che rimanere con l’amaro in bocca.

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