Venezia 69: Bellas Mariposas, la recensione

La vera sorpresa del festival di Venezia è italiana, anzi sarda e si candida ad essere il miglior film della stagione...

Critico e giornalista cinematografico


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Parco con i film, sottotono con le tematiche, sardo al cinema come nella vita e incredibilmente sottovalutato è Salvatore Mereu, il cineasta italiano più sorprendente di questi anni. Dopo aver realizzato forse il miglior film mai girato in Sardegna (Sonetaula) insidia il proprio record con Bellas Mariposas, dall'omonimo libro di Sergio Azteni, andando a giocare la sua partita in un altro sport. Non più pastori e pecore (come dicono gli avversatori del cinema sardo) ma asfalto e telefonini, non più dramma ma commedia.

A S. Elia (periferia di Cagliari che non ha nulla da invidiare a Scampia) la protagonista vive in una famiglia in cui la sorella con figlio fa la prostituta, il fratello minorenne si fa di eroina, il fratello maggiorenne gira armato ed è pronto a sparare come niente, il padre non lavora da sempre e si masturba in bagno liberamente e ogni uomo raggiungibile dal suo campo visivo è una minaccia. Tutto questo, lungi dall'essere guardato con l'austera drammaticità (se non tragicità) che ci si aspetterebbe è raccontato con colori saturi, protagonista che parla con il pubblico e umorismo da feel good movie a profusione. Lo scenario più truce immaginabile raccontato con un sorriso di una sincerità disarmante, senza filo di falsità e smarcando di continuo il grottesco o il tragicomico.

Mereu rompe tutte le regole del racconto per inseguire la narrazione anticonvenzionale del libro di Azteni e tradurla in un equivalente filmico. Per fare questo reinventa un linguaggio, spiazza, gioca con le regole, le rimescola e segue le sue protagoniste 12enni con un atteggiamento che non avevamo mai visto. Senza il rigore neorealista, senza la trasfigurazione dei luoghi e dei corpi di Garrone, senza lo smussamento di Virzì e senza nemmeno il grottesco felliniano. C'è un affetto nella loro spontaneità che ricorda Truffaut ma anche una spensieratezza nel racconto che è preso in prestito dal cinema più disimpegnato.

La libertà di messa in scena irregimentata dalla maestria fa sì che in Bellas Mariposas tutto sembri accadere quasi casualmente davanti alla macchina da presa e così facendo Mereu riesce nell'impresa più impensabile: ripensare il cinema partendo dalle caratteristiche tipicamente italiane (volti, corpi e luoghi autentici filtrati da un'interpretazione deformante) per trovare un modo nuovo di raccontare scenari che conosciamo o possiamo immaginare. Il film non fa il classico uso del comico per poter dire l'indicibile, ma reimmagina il tragico levandogli la sua forza per donarla alle protagoniste, che girano la città in autobus, vanno al mare, comprano gelati e prendono in giro tutti alla faccia di quello che vedono e sanno della propria vita. Non ignorano lo scenario che vivono nè fanno finta di non capirlo (anzi!), semplicemente scelgono di non appartenere nè ad esso nè alla sua tragicità.

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