Venezia 69: Après Mai, la recensione
Il regista di Carlos si confronta con il post ‘68 parigino con una storia semibiografica, ma avara di spunti interessanti...
I francesi hanno una splendida industria cinematografica capace di regalarci ogni anno sia divertenti commedie che bei drammi - forse non tutto originalissimi per trama, ma comunque sempre con qualche dettaglio o intuizione particolare.
Dal Milou en mai di Louis Malle a Gli amanti regolari di Philippe Garrel, dal The Dreamers di Bertolucci (che si può considerare quasi un regista francese) all’Adieu De Gaulle, adieu di Laurent Herbiet del 2008, i film sono tanti e spesso abbastanza simili nelle conclusioni: fu un periodo importante più per le singole persone che lo vissero che per la storia vera e propria.
Il volantinaggio, i collettivi nelle aule di scuola, le azioni dimostrative, i cortei, i viaggi, gli scontri con la polizia, i primi amori, la clandestinità, le lotte interne al movimento: il pacchetto è sempre lo stesso e per quanto Assayas lo infarcisca di ricordi personali tutto sembra già detto ed esplorato.
Forse più marcato è l’accento è il giudizio finale sulla futilità, o quasi, di quell’impegno, ma due ore per dirlo sembrano un po’ troppe, nonostante la bella confezione, la colonna sonora e qualche momento divertente quà e là. Ciò che si percepisce è più che altro quanto Assayas tenga all’argomento: del resto nel 2005 aveva firmato un lavoro che già nel titolo conteneva Apres Mai (Une adolescence dans l'après mai, un libro-lettera rivolto a Alice Becker-Ho, vedova del filosofo Guy Debord, uno degli intellettuali francesi di sinistra più in vista degli anni ‘60). Non solo, ma anche il finale conferma il tratto autobiografico del tutto: così come Assayas iniziò come assistente alla regia di produzioni non solo francesi (fece anche Superman di Donner), qui il giovane protagonista si ritrova sul set di un fantomatico film con nazisti e dinosauri. Insomma, voleva cambiare il mondo, ma il mondo aveva cambiato lui.