Veloce come il Vento, la recensione

Uomini danneggiati, macchine potenti, ragazze che si prendono sulle spalle il ruolo dell'eroe d'azione: Veloce come il Vento non è perfetto ma avercene!

Critico e giornalista cinematografico


Condividi
Non ci sono dubbi riguardo al fatto che Veloce come il Vento sia ben congegnato. Cinema sportivo all’americana, realizzato conoscendo bene le dinamiche italiane e sapendo trovare le anse del nostro modo di fare storytelling in cui inserire le convessità di quel genere per far combaciare tutto (una per tutte: l’uso del dialetto per dare credibilità). Una ragazza pilota, minorenne, con fratello ancora più piccolo a carico, rimasta sola non si arrende come fanno tutti intorno a lei e per tenersi casa e fratellino decide di vincere il campionato. Deve ricorrere però all’aiuto di suo fratello molto più grande, completamente distrutto da anni di droghe pesantissime il quale però una volta era un gran pilota. Lei ha gli occhi della cattiveria e della determinazione (più una rasatura blu da applausi), lui forse può rimettere in sesto una vita andata allo sbando.

C’è subito alla radice di quest’idea il concetto vincente di Rocky. Non tanto “la seconda occasione” quanto la lotta di un uomo contro il proprio corpo, combattere un fisico non adatto allo scopo attraverso una volontà di ferro e contro ogni avversità. Quest’idea è esposta benissimo da Stefano Accorsi e il suo fratello maggiore drogato, emaciato in volto, capelli sporchi, denti marci ed espressione da sinapsi bruciate (peccato per il fisico troppo palestrato, ma non si può avere tutto) eppure a tratti dotato di lampi di vera esperienza, illuminazioni di grandezza solo quando si parla di auto. Dall’altra parte Giulia (Matilda De Angelis), la vera corridrice, la protagonista dei training montage, quella che in effetti (inizialmente) sembra sia il corpo da migliorare, funziona invece come la testa pensante e il cuore del film, quella che nonostante l’aria torva abbocca a tutto e crede a quello a cui gli altri non credono. Insieme quel cuore e quel corpo, indubbiamente, funzionano. Forse proprio perché nessuno dei due ha una testa.

A funzionare molto meno semmai sono gli snodi narrativi. Veloce come il Vento è un film un po’ grossolano e goffo, si muove come un elefante in una cristalleria. Nel rispettare giustamente tutte le dinamiche del proprio genere, tratta forse troppo sbrigativamente momenti che invece avrebbero richiesto più cura. Non carica bene certe scene madri né costruisce con raffinatezza i momenti più delicati. Un incidente in motorino troppo subitaneo, litigi e riappacificazioni poco chiari e motivati sono solo alcuni esempi. Nonostante riesca comunque a parlare con efficacia di sentimenti tramite l’azione, che poi è la vera vittoria del film, lo stesso l’impressione rimane quella di un racconto un po’ tirato per i capelli.

Ma sarebbe fin troppo scemo e miope guardare il bicchiere mezzo vuoto e non vedere invece che questo di Matteo Rovere è un film di corse italiano da applaudire, probabilmente il migliore che abbiamo mai girato. Non solo perché porta a casa alla grande il risultato con scene di automobilismo di tutto rispetto, una credibilità al di là delle aspettative e un autentico coinvolgimento in quel che racconta, ma soprattutto perché nel raccontare questa storia non rincorre stupidi intellettualismi come molto cinema italiano fa quando affronta il genere (cosa che quasi sempre si risolve in trovate banali da 4 soldi e nemmeno goduriose), ma ha la consapevolezza di dover lavorare sull’eccitazione dell’azione, sul piacere del guardare e far guardare il movimento, sulla carica del desiderio di rivincita e la vertigine della vittoria. Che poi è il bello di andare al cinema e vedere un film.

Continua a leggere su BadTaste