Veleno, la recensione

Una storia di tensione diretta da Wes Anderson è, a sorpresa, eccezionale. Veleno mostra che l'armamentario di Anderson è buono per tutto

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Veleno, il quarto e ultimo cortometraggio girato da Wes Anderson a partire da storie brevi di Roald Dahl disponibile su Netflix

Quella di Veleno è una scena come Wes Anderson, fino a oggi, ha mostrato di non voler scrivere. Nei suoi film non solo non c’è niente del genere, ma non c’è nemmeno qualcosa che ci si avvicini. Se La meravigliosa storia di Henry Sugar potrebbe essere un pezzo di un suo film, se Il cigno ha dei personaggi dalla forza quieta e delle dinamiche tra bulli e remissivi che gli appartengono, e infine Il derattizzatore ha esattamente il senso dell’assurdo e del grottesco che appartiene ad alcuni suoi personaggi minori (ma soprattutto ha lo sguardo su questi personaggi, molto dall’alto verso il basso), Veleno ha un tono, un ritmo e una finalità mai viste nei film di Anderson.

È una storia breve di tensione, 15 minuti in cui un uomo sta immobile ormai da ore nel suo letto perché ha sullo stomaco un serpente il cui morso è letale. Il serpente dorme, nessuno lo deve disturbare né rischiare di svegliare, eppure un amico di quest’uomo (Dev Patel) e il dottore da lui chiamato (Ben Kingsley, immenso) dovranno fare qualcosa, rischiando il tutto per tutto. Le meccaniche della tensione sono analizzate benissimo, e non solo il meccanismo della bomba che ticchetta è ben applicato ma (incredibile) lo stile di Anderson che di suo è molto rapido, spezzettato e fatto di strappi narrativi si adatta senza problemi. Il meglio però viene da quanto sia evidente che, come in ognuno di questi quattro corti che mettono in scena storie brevi di Roald Dahl, Wes Anderson ha capito tutto di ciò che ha letto e sa restituire perfettamente la stratificazione di senso.

Veleno è una storia di guerra in realtà, è la storia di un pilota, della tensione generata dall’essere stato in guerra. Il sudore è la caratteristica principale del racconto, i movimenti isterici e involontari dei muscoli, l’isteria anche se controllata. È una storia di sindrome da stress post traumatico se vogliamo, o qualunque cosa ci fosse prima che la si diagnosticasse. È una storia di uomini nel senso tradizionale del termine (ma in fondo anche Il cigno era una specie di racconto di formazione per ragazzi). Cumberbatch è sopraffino nella parte dell’uomo immobile che tuttavia ha tutti i muscoli del corpo in tensione e sta per scoppiare dalla rabbia repressa. In questo personaggio non mette niente del savoir faire che caratterizza le sue interpretazioni, è spigoloso e fastidioso, è un fascio di nervi.

Il corto finisce lasciando tantissime domande. Cosa pensa il dottore di quel che è accaduto? Cosa è realmente successo in quella camera prima che iniziasse la storia? E soprattutto: cosa è accaduto nella vita di quel soldato che lo ha portato in questa situazione? Inizia come una storia di tensione e finisce come un racconto allucinato, che potrebbe far parte della letteratura hippie o di quella beat se non fosse così contaminato da amarezza e compassione, invece che di ironia e astrazione. Anche l’umorismo che Anderson ha aggiunto a tutte queste quattro storie, qua scompare, forse è il momento in cui è più al servizio del testo. È un corto che per budget, mezzi e semplicità potrebbe girare qualunque aspirante regista, ed è umiliante (per gli esordienti) come sia anni luce lontano, per perfezione e livelli di lettura, da qualsiasi cosa si veda fare agli esordienti.

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