Utopia 2x05/2x06: la recensione

Finale al di sotto delle aspettative, ma Utopia rimane un cult da recuperare

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Un borsone dai colori sgargianti, un cucchiaio, una pettinatura appariscente, una benda sull'occhio. Piccole finezze che ritornano nelle vignette dal formato panoramico di quel fumetto televisivo che è Utopia. È anche nella ripetizione ossessiva di questi particolari che la serie di Channel 4 ha ribadito costantemente, anche quest'anno, il valore della propria estetica al di là della trama, al di là dei personaggi. Nel momento decisivo, al culmine della tensione, Utopia vacilla e scende un gradino più in basso rispetto al primo anno. Qualcosa si inceppa nel meccanismo, forse il prezzo da pagare ad una terza stagione ancora non confermata. Nonostante tutto, la storia di Jessica Hyde e degli altri rimane un cult da recuperare.

Il senso di stordimento di tutti i protagonisti della storia all'epilogo stagionale è anche il nostro. In questi due ultimi episodi il piano del Network ha rivelato falle e segreti, mancanze e sorprese, e non sono state poche le vittime da entrambe le parti. Innanzitutto l'ennesimo gioco al ribaltamento delle prospettive e dei personaggi, che è sembrato essere una costante quest'anno, con i buoni che "osano" sempre più, e i "cattivi" che perdono quell'aura di segretezza e invincibilità, finendo vittime della loro stessa trappola. Si perdono le tonalità di giallo più chiare o più scure che avevamo visto nella prima stagione, e su tutti i personaggi, carnefici e prede, cade lo stesso timore verso l'ignoto. La Milner su tutti, che ha riallacciato bene il suo percorso umano alla storia di origini raccontata nella première, soccombendo in qualche modo alla propria ossessione.

È stata una seconda stagione forse meno cospirazionista e più drammatica, in cui il segreto nascosto da Carvel nella propria creazione ha lasciato più spesso il posto alle vicende umane di chi è stato tirato a forza nella storia. Se nel primo caso la terribile decisione presa da un uomo che aveva vissuto l'orrore dei lager apre interessanti riflessioni, nel secondo la gestione dei caratteri è apparsa incompiuta o non del tutto comprensibile. Ad esempio nell'abbozzato triangolo tra Jessica, Ian e Becky, o nel reinserimento della figura di Philip, o nella gestione altalenante del personaggio di Grant. Funziona meglio, anche se forse in modo troppo veloce, il percorso di Wilson all'interno del Network.

Il resto è coerente con il biglietto da visita che la serie ha presentato fin dalla sua prima puntata. Quell'assenza di moralismi e quel politicamente scorretto tipicamente british (che forse anche per questo stona con la componente drammatica dei personaggi) che ancora viene ribadito in un crudele monologo che apre l'ultimo episodio. E quindi l'impianto tematico di ispirazione malthusiana su cui tutto è calato, quello del problema delle risorse planetarie, dell'adattamento forzato, del sacrificio di alcuni per il bene di molti. E ancora quel borsone giallo con la tracolla nera che pare sorridere ricordandoci lo smile di Watchmen di Alan Moore, riferimento tematico e per certi versi narrativo di Utopia. La colonna sonora e soprattutto l'estetica particolarissima rimangono poi un marchio di fabbrica immediatamente riconoscibile, e non è poco.

Rimane l'amarezza per un finale aperto, che per certi versi riazzera, che per altri gioca su facili cliffhanger, che apre la strada ad una terza stagione della quale Utopia forse non aveva bisogno. La serie di Dennis Kelly resta comunque un grande esempio di televisione, della potenza delle piccole idee accompagnate ad una solida e ispirata esecuzione, un cult da recuperare e da amare.

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