Utopia 2x03/2x04: la recensione

Il terzo e il quarto episodio di Utopia, e la serie già prepara il finale

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Spoiler Alert
È davvero un peccato che Utopia fatichi a diventare quello show di culto e iconico che meriterebbe di essere. Sì, tra gli appassionati di serie tv probabilmente non è un nome sconosciuto, ma rimane un prodotto sempre e comunque ingabbiato nei rigidi confini dovuti forse alla sua provenienza, forse alle poche puntate di cui è composto, forse al semplice caso. Dovremo aspettare il remake della HBO prodotto da David Fincher per veder esplodere la riscoperta dello show? Mentre attendiamo la risposta a questa domanda, la seconda stagione concentra nei due episodi centrali una serie di turning plot che spalancano la strada al doppio finale delle prossime settimane. La serie di David Kelly raggiunge un nuovo livello di maturazione, viaggia ormai spedita giocando con uno stile personale di cui è completamente padrona, e si prepara ad una conclusione ad oggi imprevedibile.

Innanzitutto, il prologo del terzo e quarto episodio. Sempre fulminante, sorprendente e cattivissimo. L'atto dell'omicidio dissacrato e banalizzato nel primo caso, caricatissimo e agghiacciante nel secondo. La solita giostra di colori saturi e impossibili che lascia il posto ad un cupo massacro nel quale è impossibile trovare un senso. Da un evento traumatico all'altro, senza possibilità di analizzare, senza necessità di analizzare, come in un fumetto senza didascalie nel quale si viene sballottati da una vignetta all'altra. Il finale ci corre incontro velocissimo, trent'anni di preparazione di un piano diabolico per salvare l'umanità da se stessa che vengono ricondotti al percorso, per certi versi fin troppo randomico, di alcuni appassionati di un fumetto precipitati in qualcosa più grande di loro.

E, proprio ad un passo dal traguardo, la sorpresa (per la verità ad un certo punto intuibile). Philip Carvel, che avevamo lasciato negli anni '80 a contemplare la corda con la quale si sarebbe impiccato, che ritorna sotto forma di uno spaesato vecchietto, che porta con sé il marchio dei campi di concentramento, che forse ha nascosto in Janus più di quanto potrebbe sembrare. La doppiezza nel nome del virus che si manifesterebbe anche in un esito diverso da quello atteso. E ritorna anche, in un contesto diverso, la domanda che è diventata il biglietto da visita dello show: Where is Jessica Hyde? Questo personaggio incomprensibile, sfuggente, probabilmente troppo lontano da noi per lasciarci empatizzare con la sua sofferenza, ma comunque affascinante come lo sono le caricature ambulanti che popolano la serie. Come il giallissimo Lee, che sembra una figura uscita da uno script di Tarantino, o Arby, che avevamo ritrovato con una parvenza di serenità familiare e che invece è stato pesantemente risucchiato nella storia insieme al resto della sua famiglia.

Con un comparto visivo, e di personaggi, così eccessivo, forse non si riesce a giocare pienamente con i caratteri più normali di Ian, Becky e Grant e con l'effetto straniante di vederli calati in un contesto simile. La storia intanto va avanti, e in fretta, con una Milner sempre più umanizzata – è stato fondamentale il flashback della premiere – e con la certezza di trovarsi di fronte al caos controllato di una scrittura che potenzialmente non risparmia niente e nessuno, che osa al pari della regia e della fotografia (le dominanti che cambiano secondo gli ambienti), che, più banalmente, dà l'impressione che gli autori si divertano da matti a costruire situazioni e contesto (nell'ultimo episodio c'è una scena esilarante con un traduttore). Sempre da citare poi il lavoro sulla colonna sonora, davvero di un certo livello. Utopia, per noi, è già iconico.

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