Unorthodox: la recensione

Unorthodox è un racconto di emancipazione personale che ha una forte connotazione femminista e una protagonista eccezionale

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Unorthodox: la recensione della miniserie Netflix

Unorthodox è l'adattamento libero della storia di Deborah Feldman, raccontata in un memoir pubblicato nel 2012 dal titolo "Unorthodox: The Scandalous Rejection of My Hasidic Roots". Si tratta di un racconto di emancipazione personale che ha una forte connotazione femminista a permeare l'opera. Nelle mani di un team di autrici, il testo è diventato una produzione tedesca in quattro puntate distribuita da Netflix. Le libertà prese dal racconto non sottraggono nulla alla potenza della storia, che fa della semplicità immediata e sincera il suo punto di forza. Insieme ad una protagonista femminile semplicemente eccezionale.

Esty (Shira Haas) è una donna di diciannove anni, sposata e incinta, che fugge dalla comunità ebraica ultra-ortodossa Haredim all'interno della quale ha sempre vissuto. Senza istruzione, senza sicurezza, arriva a Berlino, dove si trova la madre con cui ha perso i contatti. Nella metropoli, insegue il vago sogno di entrare in corservatorio, e fa amicizia con alcuni giovani che lì studiano. Intanto il marito Yanky (Amit Rahav) si lancia alla sua ricerca e arriva in città.

Il nucleo di Unorthodox esiste negli occhi bassi tenuti dai protagonisti in vari momenti mentre parlano con un interlocutore. Tiene gli occhi bassi Esty mentre parla con le persone a Berlino, come se percepisse un senso di vergogna nelle sue parole, lei che era stata abituata a non esprimersi. Tiene gli occhi bassi il marito Yanky quando parla con lei, in camera da letto, delle difficoltà nell'avere rapporti sessuali. Si tratta di un elemento che, al pari di postura, abbigliamento, movimenti, crea un senso immediato per la vicenda e che quasi trascende il dialogo.

Esty è portavoce di un senso di appartenenza che aderisce come una seconda pelle, e che si manifesta tanto nelle difficoltà a colmare il divario con gli altri suoi coetanei, quanto nell'accettare per se stessa nuovi modi di essere. Allora Unorthodox può essere definito come un classico, lineare, semplice racconto di emancipazione. Da un lato ci sono i flashback che ci raccontano la comunità Haredim, il matrimonio, la vita coniugale, l'educazione sessuale (a quali riti non partecipare durante il ciclo); dall'altro la fuga non si risolve in un semplice allontanamento, ma nella ricerca di uno spazio personale in cui esprimersi. E tutto ruota intorno ad un conservatorio a Berlino, le prime esperienze, un senso di libertà, la presa di coscienza dei propri limiti.

L'intreccio è molto semplice, ma Unorthodox dopo un inizio lento dimostra di avere una forte carica e grande passione per la propria vicenda. Le incursioni nella comunità danno tutto un altro passo alla miniserie, che per la maggior parte del tempo è parlata in Yiddish. Ha quasi il sapore di un documentario su un argomento sfiorato molto raramente questa serie che ci racconta riti e modi di essere. Una serie che racconta la comunità come fosse l'emanazione storica del senso di appartenenza dei sopravvissuti all'olocausto, inestricabilmente legati a quel momento storico. Nel dialogo saliente della serie, Esty non rinnega quelle radici, quel dolore, ma afferma la propria individualità.

Shira Haas è eccezionale. Corpo minuto, la cui fragilità è accentuata dai suoi capelli cortissimi e da un abbigliamento dimesso, questa attrice riesce a veicolare ad un tempo debolezza e forza. Nei suoi gesti, anche i più semplici, c'è un'umanità controllata, ma profondissima, che culmina in un climax di grande impatto.

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