Uno dovrà morire, la recensione
Ciò che funziona in Uno dovrà morire è la capacità di Manolo Cardona di tenere su il ritmo e l’attenzione costantemente
La recensione di Uno dovrà morire, disponibile su Paramount+ dal 5 maggio
Comincia così, senza perdere tempo, Uno dovrà morire. Thriller d’esordio alla regia per Manolo Cardona (che interpreta il poliziotto), il film funziona esattamente come un puzzle movie alla Squid Game (o alla Knives Out, ma senza comicità): il meccanismo narrativo si basa tutto sul procedere ai livelli successivi e nel mentre bisogna capire chi sono i personaggi, come sono finiti lì e cos’hanno in comune. Un meccanismo apparentemente semplice ma che in realtà richiede una massiccia dose d’intelligenza narrativa e che Uno dovrà morire appaga dall’inizio alla fine, in un continuo alternarsi di plot twist, conflitti e momenti di tensione che pur non avendo nulla di originale hanno quella qualità d’intrattenimento del più rodato cinema di genere.
Uno dovrà morire è un film che sa fare bene quello che vuole fare: intrattenere. Ciò che impedisce al film di trasformarsi da puro divertissement quale è a denuncia sociale in forma di gioco macabro (come invece ha saputo fare mirabilmente Squid Game, parlando ad un pubblico enorme) è proprio la limitata ricerca sulle identità dei personaggi e le loro relazioni, essendo questi ridotti a stereotipi decisamente bidimensionali. I ricchi sono egoisti, i poveri si odiano tra di loro ma insieme odiano ancora di più i ricchi…
Quello che invece conta e funziona in Uno dovrà morire è la capacità di Manolo Cardona di tenere su il ritmo e l’attenzione costantemente, creando basi di tono e atmosfera chiarissime - un thriller per veri pavidi, non potremmo essere più lontani da SAW - che per un’ora e mezza ci permettono di scomparire dentro la narrazione.
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