Uno di noi, la recensione

Dopo una confusione iniziale sugli intenti, Uno di noi si immette con coraggio nella direzione del western contemporaneo più cupo e tormentato

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Uno di noi, la recensione

E chi se lo aspettava un twist del genere. Uno di noi di Thomas Bezucha comincia come un dramma familiare lento, indeciso e svogliato sul tema della perdita, dal ritmo disteso e dalla direzione tutto sommato poco chiara: poi, negli ultimi quaranta minuti, la rivelazione. Uno di noi diventa un western cupo e tormentato, ricolmo di tutte le esatte ossessioni che hanno caratterizzato il genere negli ultimi anni. E trova la sua giusta dimensione. Una dimensione emotiva dove regna il senso di perdita, di confusione, e una dimensione sociale dove la violenza è ancora la legge del confine, ma di cui è ora impossibile riconoscere l’origine. Per questo è così sconcertante (e attuale).

La storia è quella di due pensionati del Montana: Margaret (Diane Lane) e l’ex-sceriffo George (Kevin Costner), i quali hanno perso loro figlio in un incidente a cavallo. Tutto ciò che gli rimane, oltre all’amore l’uno per l’altra e al ricordo di una vita nel ranch è loro nipote di pochi anni. La perdita e la tragedia sembrano però essere il loro destino: la vedova del figlio infatti, assieme al nuovo marito e al piccolo, scompaiono nel nulla dal giorno alla notte. I due coniugi si mettono così sulle loro tracce, trovandosi a dover fronteggiare la violenza e la cattiveria della famiglia del nuovo marito e dei suoi familiari, che non hanno alcuna intenzione di lasciarli andare via senza pagare pegno per la loro invasione di campo.

Si tratta di un mondo, quello di Uno di noi (e del western contemporaneo) dove la violenza è qualcosa di intellegibile, disarmante nel suo essere gratuita, inspiegabile. Lascia i personaggi inermi, privi di risposte, soli a ricordare un passato dalla perfezione irripetibile (e che solo il flashback del cinema può ripetere, per quanto un po’ goffamente) e soli anche - e soprattutto - a combattere un male per tentativi, voti di fiducia. Non sempre riuscendo nell’impresa. Uno di noi raccoglie queste esatte suggestioni solo a metà strada, ma quando lo fa lo fa con coraggio, senza paura di deludere e senza risultare forzato. Per certi versi ricorda l’atmosfera di Fargo nella sua versione seriale, quella di Noah Hawley, dove nella seconda stagione una simile mater familias diabolica fa da capo a uomini volti unicamente al male (e dove Jeffrey Donovan interpreta praticamente lo stesso ruolo che interpreta qui, con la stessa inquietudine). Qui però non c’è nessuna ironia, la storia è sicuramente meno complessa. Ma Thomas Bezucha riesce a convincere nonostante tutto.

Ciò non toglie che all’inizio sia anche troppo confuso sia a livello registico che narrativo. La dimensione estetica sembra quella del videoclip, dove le immagini sono sì belle ma sono fini a sé stesse, vittime di una storia da cui non emerge alcun punto di vista specifico. Queste marionette che sono i personaggi si “animano” però sempre di più man mano che la storia procede e prende spessore, e di pari passo la mano di Bezucha sulla sua storia si fa più sicura, secca, decisa. I protagonisti non diventeranno mai personaggi pieni o sfaccettati, ma forse anche per questo funzionano molto di più come metafore di un destino privo di una vera logica. E che fosse un effetto desiderato o meno dallo stesso Bezucha, funziona piuttosto bene.

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