Uno di noi, la recensione
Dopo una confusione iniziale sugli intenti, Uno di noi si immette con coraggio nella direzione del western contemporaneo più cupo e tormentato
E chi se lo aspettava un twist del genere. Uno di noi di Thomas Bezucha comincia come un dramma familiare lento, indeciso e svogliato sul tema della perdita, dal ritmo disteso e dalla direzione tutto sommato poco chiara: poi, negli ultimi quaranta minuti, la rivelazione. Uno di noi diventa un western cupo e tormentato, ricolmo di tutte le esatte ossessioni che hanno caratterizzato il genere negli ultimi anni. E trova la sua giusta dimensione. Una dimensione emotiva dove regna il senso di perdita, di confusione, e una dimensione sociale dove la violenza è ancora la legge del confine, ma di cui è ora impossibile riconoscere l’origine. Per questo è così sconcertante (e attuale).
Si tratta di un mondo, quello di Uno di noi (e del western contemporaneo) dove la violenza è qualcosa di intellegibile, disarmante nel suo essere gratuita, inspiegabile. Lascia i personaggi inermi, privi di risposte, soli a ricordare un passato dalla perfezione irripetibile (e che solo il flashback del cinema può ripetere, per quanto un po’ goffamente) e soli anche - e soprattutto - a combattere un male per tentativi, voti di fiducia. Non sempre riuscendo nell’impresa. Uno di noi raccoglie queste esatte suggestioni solo a metà strada, ma quando lo fa lo fa con coraggio, senza paura di deludere e senza risultare forzato. Per certi versi ricorda l’atmosfera di Fargo nella sua versione seriale, quella di Noah Hawley, dove nella seconda stagione una simile mater familias diabolica fa da capo a uomini volti unicamente al male (e dove Jeffrey Donovan interpreta praticamente lo stesso ruolo che interpreta qui, con la stessa inquietudine). Qui però non c’è nessuna ironia, la storia è sicuramente meno complessa. Ma Thomas Bezucha riesce a convincere nonostante tutto.
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