Uno di Famiglia, la recensione

I soliti giochi di intrecci, equivoci e scambi in Uno di Famiglia diventano un modo per raccontare il piacere delle soluzioni facili e disoneste

Critico e giornalista cinematografico


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Esiste un manualino della commedia italiana dei nostri anni, un set di regole, luoghi comuni, tempi e passaggi a cui ottemperare per passare dall’inizio alla fine della storia, è quello che seguono quasi tutte le nostre commedie con una stucchevole prevedibilità e che quindi colleghiamo al peggio, perché raramente è eseguito bene e quindi funziona. Ma una struttura è solo uno scheletro e Uno Di Famiglia lo dimostra: è esattamente la tipica commedia italiana, solo scritta molto bene. Come le vere commedie non è un film comico, non carica troppo le interpretazioni (pur avendo un gigante come Lucia Ocone) né cerca la risata di continuo. Vuole far sorridere con un po’ d’arguzia ma soprattutto raccontare qualcosa che funzionerebbe anche senza l’umorismo, e a cui l’umorismo dà una dimensione in più. In un mondo (del cinema) perfetto sarebbe un film medio, da noi è decisamente sopra le media.

A sceneggiare ci sono il regista Alessio Maria Federici (come già per altri film che aveva diretto) e due novità, ovvero Giacomo Ciarrapico (parte del trio responsabile di Boris e Ogni Maledetto Natale) e Andrea Garello (Smetto Quando Voglio). I tre prendono il classico spunto di trama che dietro non ha niente delle commedie italiane (un mite insegnante di dizione salva la vita ad uno studente che è figlio di un boss della ‘ndrangheta e il clan lo forza a diventare “uno di famiglia” con relativi obblighi e vantaggi) e a sorpresa ci mette dietro qualcosa. Questa storia di un uomo normale che comicamente vede la sua vita invasa dai vantaggi e dal brivido della mafia non nasconde nemmeno troppo il fatto di voler parlare di come anche i più probi siano pronti a rinunciare alla morale e all’onestà sbandierata per avere dei vantaggi. E ancora meglio rende questa parabola morale attraente, rende invitanti i vantaggi della disonestà.

Il protagonista (Pietro Sermonti) è costantemente combattuto tra il denaro, la possibilità di risolvere facilmente ogni problema e il disprezzo per i metodi usati. Il mondo in cui lui e la sua fidanzata (Sarah Felberbaum) si muovono è pieno di piccole truffe, di quotidiani soprusi e di persone che se ne approfittano, fanno male il proprio lavoro, sono corrotti e generano una rabbia autentica. Il film non lo dice mai ma il pubblico pensa sempre che l'unica soluzione siano i favori dell‘ndrangheta.

Tutto ciò non è mai preso di petto, sta nel retro. Vediamo equivoci, piccole vendette, scambi di casa, assalti sessuali a vuoto e tutto in un modo o nell’altro è sottilmente collegato a quel tema, tutto porta acqua a quel mulino senza bisogno di dirlo. Alla fine (come già Smetto Quando Voglio) non ci saranno risposte o vere risoluzioni, ognuno potrà trarre le proprie conclusioni.

Purtroppo il film non è diretto in maniera impeccabile. Inizia con un scena inspiegabilmente al di sotto del resto del film (in cui addirittura due clan mafiosi in una macelleria si sfidano e la polizia li spia tramite un drone che sta nel loro stesso ambiente e loro tuttavia non lo vedono né tantomeno lo sentono!) e finisce con un piano sequenza aiutato dal digitale che fa acqua da tutte le parti, un virtuosismo mal riuscito difficilissimo da spiegare. In più ci sono trascuratezze come Nino Frassica, centrato capofamiglia di un clan calabrese, che però parla senza problemi il suo consueto siciliano. Sono dettagli (ma solo fino a un certo punto!) che suonano tanto più fastidiosi proprio in un film in cui pure i dialoghi tra personaggi sono buoni (ottimi quelli intimi e domestici tra Sarah Felberbaum e Pietro Sermonti) e nel quale anche il classico scambio di atteggiamento tra Sermonti (più femminile) e Lucia Ocone (più maschile) è portato con grazia.

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