Uno, anzi due, la recensione

È cinema comunale romanesco quello di Uno, anzi due ma a grande sorpresa realizzato con gran un gusto per il paradosso e per l'esibizione di corpi inusuali

Critico e giornalista cinematografico


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È cinema provinciale quello a cui prende parte Maurizio Battista, un film che scrive, interpreta e nel quale si lascia dirigere da Francesco Pavolini (già regista di una serie tv anch'essa a carattere provinciale come I Cesaroni). Non c'è dubbio che l'intento principale sia soddisfare il pubblico più folto del comico (quello romano) e poi in seconda battuta creare qualcosa di digeribile dal resto del paese. Non è solo una questione di dialetti e inflessioni (dal secondo dopoguerra il 95% della comicità italiana è dialettale) ma proprio di mood romano. Uno, anzi due non è certo il primo film a carattere comunale a provenire da Roma (lo stesso Battista ne aveva realizzato un altro con Enzo Salvi in passato), tuttavia è permeato di un'autentica leggerezza e di una sincera (e riuscita!) aura d'altri tempi che lo elevano sopra la media.

Il film non fa mai mistero del suo personalismo, è una questione per amanti dell'umorismo di Battista e basta, non c'è molto di più in termini di inventiva che non siano le sue battute. Tuttavia, nonostante sia più che scontato come si cerchi disperatamente una maniera di unire tra di loro diverse gag e sketch di Battista (alcune delle quali provengono pari pari dagli spettacoli teatrali, per ammissione degli stessi autori) stavolta il filo conduttore è stranamente coinvolgente. La storia di un uomo a cui muore il padre e che in quel momento scopre di essere pieno di debiti ma per vigliaccheria non osa confessare nulla a moglie e figlio e comincia a vivere come avesse ereditato i milioni, spendendo cioè cifre folli, è una discesa verso il basso dall'umorismo contagioso che Battista interpreta con indefessa assurdità, con una rassegnazione romanesca di incredibile e lucida follia.

Girato in location di autentica piccineria, in ambienti realisti come se ne vedono raramente al cinema, Uno, anzi due vive proprio di spazi e corpi e ha il merito di recuperare una serie di clamorosi caratteristi del cinema romano degli anni '80 che parevano dimenticati non fosse per qualche apparizione nelle commedie recenti dei Vanzina. Si va da Nadia Rinaldi a Stefano Ambrogi fino addirittura a Sergio Di Pinto e all'immancabile Massimo Marino, volti ma sopratutto fisici da un'altra era, poco concilianti, esagerati in grandezza, sbagliati in proporzioni e autentici nella loro mancata adesione a qualsiasi canone di bellezza filmica. Uno anzi due, aggiungendo a questi badanti moldave non più giovani, Ninetto Davoli, Ernesto Mahieux e il mago Silvan diventa insomma un campionario di corpi tra i quali sembra non essercene uno giusto ma tutti terribilmente interessanti per l'obiettivo (addirittura anche Claudia Pandolfi sembra sformata). Le spalle giganti di Stefano Ambrogi o la voce incredibile di Sergio Di Pinto, le dita mancanti di Mahieux come l'inimitabile sorriso anni '60 di Davoli, sembra paradossale scriverlo, ma portano un tono sghembo e misteriosamente calamitante a un film che per il resto desidererebbe solo essere piccolo.

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