Unlocked, la recensione
Aggiornando le tematiche del J-Horror degli anni 2000 all'epoca degli smartphone, Unlocked esaurisce troppo presto le sue potenzialità
La nostra recensione di Unlocked, disponibile su Netflix dal 17 febbraio
Na-mi (Chun Woo-hee) perde il suo cellulare in strada tornando a casa dal lavoro. Questo viene recuperato da un misterioso ragazzo, Jun-yeong (Yim Si-wan) che, prima di restituirglielo, ci installa uno spyware. Così, comincia a scoprire tutti i dettagli sulla sua vita privata e a seguire i suoi spostamenti, decidendo di avvicinarla. Nel frattempo, una serie di omicidi portano il detective di polizia Ji-man (Kim Hie-won) sulle tracce del figlio da tempo lontano da casa.
Prendendo spunto dai suoi modelli, Unlocked propone infatti come subplot una detective story e lega tutto al tema della genitorialità e dello scontro generazionale. Una volta imbastite le coordinate, si prolunga però uno sviluppo prevedibile, dove sembra che non ci sia nulla da scoprire se non quello che già appare scontato, fino all'immancabile colpo di scena finale che cambia la prospettiva degli eventi. Impossibile inoltre non notare alcune imperfezioni nella sceneggiatura, che rendono assai difficile mantenere la sospensione dell'incredulità. Va bene che un padre possa credere a un messaggio della figlia che le chiede di installare un software; ma anche che poi esca di casa senza farsi domande per prendere un pacco che non aveva ordinato? Come inoltre reagire alle frasette programmatiche che gli stessi personaggi pronunciano per mettere in guardia dai rischi della tecnologia e da come la vita virtuale non corrisponda a quella reale?