Unlocked, la recensione

Aggiornando le tematiche del J-Horror degli anni 2000 all'epoca degli smartphone, Unlocked esaurisce troppo presto le sue potenzialità

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La nostra recensione di Unlocked, disponibile su Netflix dal 17 febbraio

Nell'ondata di J-Horror a cavallo degli anni 2000 uno dei temi preponderanti era la minaccia che derivava dalla tecnologia: in The Call di Takashi Miike la morte arrivava a partire dalle chiamate sul cellulare da parte di uno sconosciuto. Vent'anni dopo, Unlocked traspone questa tendenza in Corea e cerca di aggiornarla alla contemporaneità, tra smartphone social, guardando ancora di più a un pubblico universale.

Na-mi (Chun Woo-hee) perde il suo cellulare in strada tornando a casa dal lavoro. Questo viene recuperato da un misterioso ragazzo, Jun-yeong (Yim Si-wan) che, prima di restituirglielo, ci installa uno spyware. Così, comincia a scoprire tutti i dettagli sulla sua vita privata e a seguire i suoi spostamenti, decidendo di avvicinarla. Nel frattempo, una serie di omicidi portano il detective di polizia Ji-man (Kim Hie-won) sulle tracce del figlio da tempo lontano da casa.

Riflettere oggi sulla pericolosità della tecnologia vuol dire necessariamente scivolare nell'ambito della paranoia, della paura del controllo sulle nostre vite tramite i dispositivi. In questo senso, Unlocked imbastisce un'atmosfera sapientemente pervasiva che racconta un mondo dove ormai domina la virtualità e in cui è facile essere preda di hacker. Questo grazie anche al lavoro sulla messa in scena: il regista esordiente Kim Tae-joon più volte fa coincidere l'immagine dell'inquadratura con quello dello schermo dello smartphone. Cerca inoltre, almeno nella prima parte, di trasmette frenesia e precarietà con la macchina da presa e il montaggio, come se fosse lui stesso a filmare da un cellulare. Frequenti anche le soggettive di cui non si capisce la fonte, che all'interno delle abitazioni trasmettono il senso di una minaccia incombente ma invisibile. Tutte ottime premesse, che esauriscono però il proprio potenziale nei primi trenta minuti (di un film che dura quasi due ore).

Prendendo spunto dai suoi modelli, Unlocked propone infatti come subplot una detective story e lega tutto al tema della genitorialità e dello scontro generazionale. Una volta imbastite le coordinate, si prolunga però uno sviluppo prevedibile, dove sembra che non ci sia nulla da scoprire se non quello che già appare scontato, fino all'immancabile colpo di scena finale che cambia la prospettiva degli eventi. Impossibile inoltre non notare alcune imperfezioni nella sceneggiatura, che rendono assai difficile mantenere la sospensione dell'incredulità. Va bene che un padre possa credere a un messaggio della figlia che le chiede di installare un software; ma anche che poi esca di casa senza farsi domande per prendere un pacco che non aveva ordinato? Come inoltre reagire alle frasette programmatiche che gli stessi personaggi pronunciano per mettere in guardia dai rischi della tecnologia e da come la vita virtuale non corrisponda a quella reale?

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